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Conoscenza per mistero

Pietro Federico

L’assedio del mistero

 

Con la posizione di un io, di un soggetto rispetto al quale il mondo è, di un soggetto che quindi, assumendo un atteggiamento <<critico>> dubita del mondo, si perde la possibilità di un cominciamento filosofico. L’io è appunto vita-che-esperisce-il-mondo, l’io è se stesso soltanto nell’autoestraniazione; un io privo di mondo è un non-senso.[1]

 

Facciamo nostra questa tesi: un’io separato dal mondo è un non senso. Il significato si genera in questo rapporto. Ma l’io non può esistere al di fuori del mondo anche in un altro senso. In un’accezione assai più profonda. Molto di ciò che vive al di là della nostra coscienza, molto di ciò che è nuovo, misterioso, molto di ciò che non ci appartiene abita in noi. Ci avvarremo del buon senso, oltre che del ragionamento, e diremo che un uomo impiega una vita a comprendere la sostanza e il significato dei propri desideri. Potremo a questo punto usare il termine “dato” al posto del termine “mondo”, ma il risultato non cambierebbe. L’universo che ci circonda e ci abita è colmo di presenze innumerevoli, se non infinite e provoca la nostra persona alla ricerca. Ogni passo compiuto inoltrandosi nella realtà fisica porterà nuova luce (minore o maggiore) alla consapevolezza di noi stessi e ogni passo in noi porterà nuova luce allo sguardo che rivolgiamo alle cose. L’interdipendenza di queste due dimensioni, quella dell’io e quella del mondo fisico è resa evidente non solo dall’atto dovuto del nostro buon senso, ma da una comunione sostanziale incardinata su  di un unico principio fondamentale: il mistero. Noi conosciamo sempre troppo poco del mondo che ci circonda e sempre troppo poco del mondo che ci abita. Dice Ungaretti “Mistero è il soffio che circola in noi e ci abita”. Una delle rotte raccomandabili quindi sarà quella che ci porta a considerare il soggetto e il mondo non più come poli divisi tra i quali sia necessario lanciare ponti, ma come parti di un’unica realtà. Dovrà decadere quell’idea di conoscenza che ci porta a concepirla come un processo “digestivo”, secondo l’espressione di Husserl. Il nostro approccio sarà quello di una conoscenza partecipativa. Devo però precisare cosa si intenda per mistero. Esiste un aspetto quantitativo del mistero e un altro aspetto che invece affonda le sue radici nell’inesteso.

 

 

L’aspetto esteso

 

Mai un oggetto esistente in sé è tale da escludere ogni relazione con la coscienza e con l’io. La cosa è sempre cosa del mondo che mi circonda, anche quella non veduta, anche quella possibile, non sperimentata, ma sperimentale e forse sperimentabile. La sperimentabilità non significa una vuota possibilità logica, ma una possibilità motivata dalla connessione dell’esperienza.[2]

 

Non arriveremo ora a dire che il mondo ci appare come una presenza infinita, ma ci sembra in ogni caso possibile considerarlo come una presenza innumerabile nella quantità degli elementi e dei rapporti che compongono il suo paesaggio, e ultimamente immensa nella sua estensione temporale e spaziale. Tutti i tentativi di misurazione dell’uomo a questo riguardo iniziano e si conchiudono nell’ambito di ipotesi sempre più precise forse, ma sempre approssimate. La presenza del mondo al di fuori e al di là della nostra facoltà percettiva ed intellettuale viene chiamata da Husserl sperimentabilità, ed essa non si traduce, nell’esperienza concreta del vivere, in una vuota possibilità. Il mondo tende ad invadere la nostra coscienza non solo attraverso le sue manifestazioni direttamente percepite dai nostri sensi, ma attraverso una dimensione che in termini psicologici ed emozionali potrebbe tradursi con il termine “presentimento”. La nostra coscienza quindi, a bordo di quella nave che è la nostra persona, si inoltra nel mare del mondo con una sorta di certezza istintiva e inestirpabile, che affonda le sue radici nel moto stesso del nostro essere. Questo “presentimento” ci sembra essere parte integrante e cardinale della percezione che l’uomo ha della realtà. La percezione di un fiore in un prato non sarebbe la stessa se non sapessimo che il prato in cui la luce del fiore si incastona sconfina dal nostro sguardo, o invece che esso, in un punto prima dell’orizzonte, confina con una casa che ci nasconde un altro luogo del mondo. Non stiamo qui parlando innanzi tutto di un aspetto concettuale, ma di un aspetto della nostra percezione sensibile. Il nostro sguardo, il nostro udito e tutti i nostri sensi sembrano indissolubilmente vincolati a questa consapevolezza; alla certezza che la nostra esistenza non abbia luogo entro gli angusti confini di un palcoscenico, ma dentro uno spazio vivente e inabbraciabile, nella sua totalità, dalla nostra coscienza e ancor meno dai nostri sensi. È consapevolezza del limite, ma è anche consapevolezza di un viaggio. È in questa dimensione innumerabile del mondo che il nostro io comincia, in senso cronologico, a fare esperienza della vera natura della ragione. Non importa quanto io ne sia conscio. Essa in ogni caso domina e permea il nostro sentimento del reale. Se non fosse così la condizione psicologica ed emotiva di ogni uomo di fronte al mondo non sarebbe una proiezione di ricerca, ma un terrore assoluto a ogni passo. In noi sembra esistere la fiducia che, mettendo un piede davanti all’altro, l’universo aprirà sempre un nuovo orizzonte di cose e di luce ai nostri occhi. In noi sembra radicarsi la certezza che il nulla sia solo un’astrazione della mente, il distillato dell’astrazione, niente che abbia a che fare con la realtà concreta della nostra vita. È come se per la nostra intima coscienza fosse inconcepibile l’idea che a un certo punto, camminando lungo il prato, superando il fiore, l’orizzonte possa dare spazio a un vuoto, a una mutilazione assoluta. Fin da questo primo aspetto prende luce un’idea di ragione. Essa non ci appare come un contenitore entro cui stipare la maggiore quantità possibile di informazioni ed immagini, ma come una sonda che si inoltra progressivamente nel reale.

Esiste un’altra sfumatura dell’aspetto quantitativo ed estensivo del mistero. Essa ci apre a una dimensione dinamica e sviluppata su una traiettoria più verticale, ma sempre all’interno della semplice percezione sensoriale.

Cambia, come abbiamo detto, non tanto lo strumento, non tanto il desiderio di conoscenza della ragione. A mutare radicalmente è l’atteggiamento. Un atteggiamento di viaggio e d’attesa. Citando Giacomo Debenedetti dal suo Romanzo del Novecento:

 

Un giorno Proust passeggiava con Hahn per il giardino di una villa. Il viale lungo cui camminavano era costeggiato da una siepe di rose del Bengala. Proust si fermò un momento a guardare la siepe, poi riprese il cammino. Poco dopo, come punto da un rimorso, si fermò e ‹‹con la dolcezza infantile e un poco triste, che sempre conservò nel tono e nella voce›› disse al compagno: ‹‹Vi dispiace se rimango un pò indietro? Vorrei vedere quel roseto.›› Hahn ebbe il tempo di fare parecchi giri e sempre, volgendosi, ritrovava Proust fermo davanti alle rose. ‹‹Con il capo chino e volto grave, socchiudeva gli occhi, tenendo i sopraccigli lievemente aggrottati come in uno sforzo di appassionata attenzione, mentre con la mano sinistra introduceva ostinatamente tra le labbra l’estremità dei suoi baffi neri, che veniva mordicchiando››. Qui l’immobilità dell’osservatore accresce, se così si può dire quella dell’oggetto osservato, nel senso che impedisce che un altro oggetto gli si sostituisca  nello spazio o nel tempo, a focalizzare l’attenzione. Una doppia immobilità dunque, connessa alla statica, concentrata attesa che quell’oggetto, il roseto, riveli la sua essenza. Albert Camus nel Mythe de Sysiphe, e poi tanti altri con lui hanno osservato che Proust privilegia ogni attimo, quanto dire che privilegia tutti gli oggetti che appaiono in ciascun attimo. Sappiamo cosa voglia dire privilegiarli: vuol dire farli segno della particolare attenzione, o meglio della contemplazione tutt’insieme passiva e implorante, intesa a far sì che essi aprano e comunichino il loro segreto.[3]

 

Il principio dell’universo torna ad essere un principio dinamico. Debenedetti ci parlerà di immobilità e statica, ma sarà l’immobilità e la statica dei corpi e della narrazione nello slancio convergente di cuore umano e segreto, dentro il miracolo. Dirà Jeanne Hersh a riguardo di Bergson e del suo uso dell’immagine della melodia nel Saggio sui dati immediati della coscienza:

 

A questo punto possiamo già osservare che, sebbene l’atto di ricollocarsi nella durata pura esiga secondo Bergson uno sforzo straordinario, l’immagine della melodia suggerisce un atteggiamento passivo. Si tratta dell’io profondo, della parte veramente viva dell’essere, dove ogni istante è creatore. Si tratta dell’io di cui prendiamo coscienza solo attraverso uno sforzo violento della volontà. E tuttavia l’immagine evoca una sorta di abbandono, di silenzio, di recettività pura.[4]

 

Due sono i movimenti messi ancora più in risalto nell’immobilità dell’attesa. Il movimento della coscienza che si muove implorante quasi a porre d’assedio i confini, i lineamenti fisici dell’oggetto, come in seguito a un richiamo, e il movimento del segreto, convergente al primo attraverso l’oggetto. Due sono i centri motori, l’uomo e il mistero, uno è il luogo d’incontro: il mondo. Come abbiamo già accennato nel primo paragrafo, l’attesa diventa regola prima del gesto artistico. Lo studio tecnico non sarà che preparazione all’opera, educazione ed ampliamento della capacità di ascolto, di sguardo, di accoglienza all’accadere del miracolo. Per introdurre da qui la dimensione dell’arte diremo che in nessun modo quest’affermazione dovrà risultare, agli occhi del lettore, riduttiva nei confronti del “mestiere”. Su quest’ultimo si concentrerà la vita dell’artista: preparazione, stesura e perenne aggiustamento saranno i tempi del mestiere. L’artista dovrà però semplicemente essere cosciente che non saranno le piroette tecniche, o i salti funambolici sul filo del linguaggio a fondare un’opera d’arte. Il mestiere diventa il mezzo e la sostanza con cui prestare servizio al miracolo: non lo scopo.

Qui il processo dell’appercezione estetica e della conoscenza sembra comporsi di due movimenti convergenti. L’immagine più adatta è ancora quella proposta da Husserl e citata nel mirabile saggio che Debenedetti realizzò nell’ambito di uno studio su Joyce e Proust:

 

Riflettiamo ancora per un attimo a Proust immobile davanti al cespo di rose del Bengala. Fin dalla prima lettura di quell’aneddoto ci era parso, e avevamo notato, che quello non era un Proust che si astraeva da rapporti col resto della vita per concentrarsi a cercare l’essenza di quelle rose: al contrario, era uno che si esponeva a farsi cercare dall’essenza delle rose. Ci è di conforto adesso poter controllare che quel commento di allora era giusto. Perché ormai sappiamo che quel rovesciamento della situazione del poeta corrispondeva a un parallelo rovesciamento della concezione filosofica della conoscenza. La cosa risulta assai chiara dalla breve e bellissima nota di Jean-Paul Sartre (del 1939) su fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità. Sartre dice, in sostanza: tutta la filosofia è stata finora una filosofia alimentare, e spiega: ‹La mangiava con gli occhi›: questa frase, e molti altri indizi, rivelano a sufficienza l’illusione, comune al realismo e all’idealismo, secondo la quale conoscere è mangiare... tutti abbiamo creduto che lo Spirito-Ragno attirasse le cose nella sua tela, le coprisse di una bava bianca e lentamente le deglutisse...” Si tratta cioè di digerire, assimilare gli oggetti trasformandoli in “contenuti di coscienza”. E Sartre continua: “Contro la filosofia digestiva... Husserl insiste nell’affermare che non è possibile dissolvere gli oggetti nella coscienza. Voi vedete quell’albero; ma lo vedete nel luogo stesso in cui si trova, sul bordo della strada, in mezzo alla polvere, solo e contorto sotto il caldo... Esso non potrà entrare nella vostra coscienza perché non è della sua stessa natura... Conoscere è <esplodere verso>, strapparsi dall’umidiccia intimità gastrica per correre di là da sé verso ciò che non è sé, laggiù accanto all’albero e tuttavia fuori, perché esso mi attrae e mi respinge e io non posso perdermici più di quanto l’albero non possa diluirsi in me... Husserl chiama <intenzionalità> la necessità per la coscienza di esistere come coscienza d’altro da sè”.[5]

 

Debenedetti accosta l’intermittenza del cuore di Proust all’epifania di Joyce. È in quest’ultima che l’oggetto si mostra ai nostri occhi come fenomeno, secondo l’accezione Husserliana ed etimologica, cioè come oggetto-che-viene-in-luce. Joyce descrive il momento estetico ispirandosi a San Tommaso e dividendolo in tre fasi; symmetria, integritas, claritas. La symmetria corrisponderà allo stadio in cui al nostro sguardo viene dato di considerare l’oggetto secondo un disegno armonico e bilanciato; l’integritas corrisponderà invece al momento in cui vedremo ogni parte comporre l’oggetto ognuna convergendo verso un’interezza organica e vivente, come se nessuna di esse potesse esistere separata dal tutto e viceversa. Il culmine del momento estetico sarà la claritas. Joyce, al contrario di molti altri scrittori e filosofi non tradurrà il termine latino secondo un’accezione concettuale, come fece Croce usando il termine “chiarezza”. La parola che userà Joyce sarà “radiance”. La realizzazione del momento estetico corrisponde a un’emanazione radiante di luce. L’oggetto, come dice Debenedetti avvalendosi di Husserl, fa esplodere il proprio significato verso l’esterno portandolo a impattare con lo sguardo di chi ha saputo attendere, coniugando la passione alla pazienza. Non parliamo più di un significato esiliato nella cerebralità o nel concettuale. Il significato è luce per Joyce, come per Husserl. Ma non una luce da considerarsi in termini metaforici. Una luce visibile, caduta o esplosa all’interno dell’ambito sensoriale. Ogni oggetto possiede un nocciolo inassimilabile dalla nostra coscienza. Questo nucleo impedisce alla realtà di venire ridotta esclusivamente a contenuto di coscienza; è posto a salvaguardia dell’alterità. E al contempo esso è il centro motore del significato che viene in luce incontro allo sguardo.

 

 

L’aspetto inesteso

 

L’aspetto inesteso del mistero cadrà ancora una volta nel campo della nostra percezione sensoriale e si presenterà direttamente e indissolubilmente interconnesso con l’aspetto esteso. Questa volta la via più semplice e diretta ci sarà aperta da Henri Bergson. “Ci esprimiamo per lo più con le parole, e pensiamo per lo più nello spazio.” Queste sono le prime parole della prima opera filosofica di Bergson. Molto di questa esistenza non è rinchiudibile in una spazialità. Da qui l’abitudine del pensiero a tradurre per comodità, all’interno del linguaggio, l’inestensione del tempo e dell’anima nell’estensione dello spazio. Non esiste un linguaggio che racconti l’interezza dell’essere. Ne esiste solo uno che, attraverso un continuo processo metaforico, tenterà di portare l’inestesione nell’estensione, la qualità nella quantità, soffocandola. Bergson, saggiamente, non si azzarderà mai ad affermare di aver trovato la chiave per la soluzione del problema, per l’accoglienza totale e perfetta del mistero nella parola. Nello stesso momento possiamo tranquillamente guardare tutta la sua vita come attraversata dalla tensione e dal desiderio di accostare sempre di più il limite di pensiero e verbo alla corrente profonda della vita interiore.

Se ci si accontentasse di questa premessa, si potrebbe ancora pensare, come hanno fatto moltissimi lungo il Novecento, che la filosofia di Bergson parta da una sfiducia di fondo nei confronti dell’intelletto e del linguaggio, ma non è così. In Bergson sussiste una sfiducia, ma essa si rivolge a quelle concezioni di uomo e realtà così forti tra 800 e 900. Ciò che Bergson non riuscì mai a tollerare fu la parzialità e l’autolimitazione imposta dal pensiero a se stesso. Esse, ai suoi occhi, si rivelavano come i sintomi inequivocabili di un desiderio di conoscenza e di vita, ultimamente insincero. La filosofia (il linguaggio e il pensiero), secondo Bergson, era rimasta, per secoli, vittima dello spazio e di se stessa.

Come il lettore dovrebbe aver compreso il pensiero bergsoniano occupa una posizione centrale in questo progetto. Chi scrive, arrivato a questo punto, si è trovato davanti a questo interrogativo: quale è la via più sintetica ed efficace di mostrare come Bergson abbia influenzato la poesia del Novecento? E, come spesso accade, proprio su quel tratto del sentiero si è fatto incontro chi poteva aiutarci. Mi riferisco al testo già citato di Jeanne Hersch intitolato: Le immagini nell’opera di Bergson. La Hersch, proprio all’inizio del suo saggio ci fa capire come, tramite il suo metodo di approccio, sia riuscita a penetrare in profondità il pensiero di Bergson:

 

Si potrebbe dubitare che uno studio che si concentra esclusivamente sulla forma, sullo stile, e addirittura più particolarmente sulle immagini, sia di qualche interesse quando tratta l’opera di un filosofo. Un filosofo, si pensa, non è un’artista. O, se lo è, nella sua opera l’arte e la bellezza sono involucri destinati a un’immaginazione secolare, laica. Per addentrarsi nel vivo del pensiero, è necessario oltrepassare questo involucro, rifiutare tutto ciò che è spazio e immagine per giungere a vedere solo l’articolazione ragionata e logica del sistema. Vedere chiaramente, allineate davanti a sè, le diverse affermazioni con i ragionamenti che le legano e gli argomenti che le sostengono: non è forse a questo scopo che si studia un sistema filosofico? Perchè allore concentrarsi sulla forma e analizzarla per se stessa?

Se intraprendo questo studio, è proprio perchè per me un sistema non è solo un raggruppamento di affermazioni più o meno diverse, legate da argomenti più o meno logici. La filosofia non è semplicemente un gioco di mosaici che raggruppano tasselli diversi in diversi modi. C’è, in ogni opera filosofica, qualcosa di molto più centrale, di molto più essenziale, di molto più vero della sua catena di affermazioni oggettivamente comprensibili, riducibili a elementi comuni e paragonabili ad altre opere.  L’opera è davanti a noi, più o meno modellata, scolpita, armonizzata, equilibrata. È immensa e complessa, afferma questo di Dio, quello dell’universo, dell’uomo, dell’anima. Ciò che contiene di più reale è il profondo movimento di pensiero che l’ha creata, avanzando a tastoni nel buio. Una afferma la trascendenza di Dio, l’universo illimitato, l’anima immortale. Un’altra afferma l’immanenza, il limite, la morte totale. È questa la loro principale differenza? No, è sotto, nell’origine delle sue credenze, nel movimento del pensiero; è ancora più sotto, in quello che Henry Bergson chiama “centro di forza”. Questo centro, del resto, è inaccessibile. Ma, nello studio di una filosofia, tutte le energie devono tendere ad avvicinarvisi il più possibile.

Ora, ce ne avviciniamo molto meno comprendendo  le affermazioni di per se stesse che non cogliendone i rapporti, i legami, riproducendo a nostra volta il movimento di quel pensiero.

Questo movimento (soprattutto nelle grandi filosofie, le più originali) è semplice ed essenziale.[6]

 

Una cosa più di tutte la Hersch pone qui in evidenza. Bergson non ritiene sia plausibile che un solo linguaggio in merito all’essere. Filosofia e arte si avvicinano. La filosofia di Bergson pone nell’uso del linguaggio le sue fondamenta. Esso non è semplicemente un mezzo, ma parte intima del pensiero. Non esiste pensiero che nel linguaggio, in esso si gioca la libertà. La Hersch, nel suo tentativo di immedesimazione, considererà quest’ultimo la dimensione essenziale in cui potere contemplare il movimento del pensiero. Il pensiero si muove, e in questo movimento è la sua essenza. La filosofia va prima di tutto intuita, contemplata, vista, non capita. Il pensiero rientra nella luce della visione. Quel desiderio di oggettività che tendeva così irresistibilmente a disseccare la buccia succosa delle immagini, a tagliare i ponti della sintesi attraverso l’analisi e a immobilizzare i concetti, si rivela come il primo passo verso la morte. In esso consiste la prima ribellione al pudore, la prima cupidigia. La Hersch considera il movimento del pensiero come la strada privilegiata per giungere al “centro di forza”, all’intuizione originale. Cerchiamo di capire cosa la Hersch intenda per essenziale parlando di questo movimento:

 

Essenziale: questo movimento esprime ciò che ogni filosofia ha di unico. Affermazioni identiche possono trovarsi in più filosofi. Le loro origini si assomigliano, ma non sono mai la stessa. Lo “schema dinamico” dà il carattere proprio di ogni mente, impossibile a confondersi con altri quanto un viso familiare. L’essenziale nello studio di un sistema mi sembra essere sentirne il richiamo. [...] Una comprensione oggettiva non è sufficiente; è necessario pensare soggettivamente con l’autore. Bisogna piegare il proprio pensiero non alle affermazioni riportate astrattamente, ma all’espressione stessa, alle sfumature dei termini, al movimento delle frasi, all’ordine delle idee. Ciò che deriviamo allora da questa intimità è al contempo infinitamente più complesso e infinitamente più semplice di quel che deriviamo da una storia della filosofia. Più complesso perchè i dati sono numerosi, sottili, impossibili da cogliere al completo ed enumerare, come è impossibile dire tutte le caratteristiche di una fisionomia. Più semplice perchè tutta questa complessità si organizza in un’unica spinta, un unico slancio centrale, un’unica individualità viva. Tra un corso di storia della filosofia e la lettura di un’opera c’è la stessa differnza che Bergson vede tra un mosaico e un dipinto.

[...] Le immagini saranno solo dei punti di riferimento, i sintomi di un atteggiamento primario, di un’intuizione fondamentale, sviluppata in un’opera filosofica. [...] Per ammissione dello stesso Bergson, la rappresentazione di una filosofia attraverso un’immagine non è nè superficiale, nè molto lontana dalla sua sorgente viva: “Abbiamo solo due strumenti di espressione: il concetto e l’immagine. Il sistema si sviluppa in concetti, ma è in immagini che esso si condensa quando lo risospingiamo verso l’intuizione da cui deriva”.[7]

 

Sussiste un legame tra lo sguardo e il pensiero e tra quest’ultimo e l’essere. Come si potrà ben

intendere tutto il problema del pensiero e del linguaggio non potrà più essere affrontato a prescindere dal rapporto con il noumeno. Come abbiamo già affermato l’ontologia non potrà più essere separata dalla metafisica, e la metafisica dalla fisica. Non fu questa la premura della Woolf, di Joyce e di Eliot, di Ungaretti, etc....? Risorge un’antica unità di pensiero dai lineamenti completamente rinnovati. Scrive Laura Boella, commentando l’opera della Hersch:

 

Nel rapporto tra il pensiero e le immagini si gioca in effetti una questione che sarà sempre al centro della riflessione di Jeanne Hersh, la questione della forma o del modo in cui l’attività o il pensiero umano portano a unità, danno la propria impronta alla materia. È la questione della mediazione simbolica, che permette di entrare con criticità e autonomia in un pensiero, come quello di Bergson, interamente giocato sul rifiuto dell’idea astratta, delle costruzioni artificiose o dei “falsi problemi” in favore della realtà vivente. [...] La funzione delle immagini non è dunque di surrogato o schermo che fino a un certo punto avvicina, ma mantiene in definitiva lontani dalla realtà ultima, bensì quella di indurre a porre in essere il movimento di pensiero che, per esempio, è al centro della prima opera di Bergson, l’Essai  sur le données immédiates de la coscience: l’ascolto della vita dell’io profondo. Di qui l’importanza delle immagini uditive, in primo luogo della melodia [...].[8]

 

Le immagini non sono uno schermo, non devono esserlo. Ciò che conta non è il mantenimento di una distanza tra l’immagine e il suo significato, perchè non è attraverso un sentimento di vaghezza che si percepirà il movimento dell’essere. Bergson vuole la precisione perchè vuole accompagnare la coscienza di chi ascolta fin sulla soglia della vita interiore: nell’universo. Egli sa che l’unica via per giungere all’essere passa attraverso la realtà e che la realtà nel pensiero dell’uomo più santo e più semplice sarà sempre un’immagine. Bergson si trova di fronte a un paradosso e su di esso fonda la forza del suo linguaggio:

 

Innanzitutto, Bergson si sforza di esprimere con il linguaggio ciò che il linguaggio distrugge. Nel suo campo d’azione, le parole uccidono. Deve esprimere la vita con parole di morte. Per essere coerente, avrebbe dovuto seguire il consiglio di Benda e tacere. Fortunatamente, non ha taciuto. Avremmo potuto aspettarci allora che si tenesse il più possibile su termini molto generali, quelli che si circondano di una nebulosità indistinta, che, per così dire, costruiscono intorno alla frase uno spazio sfocato in cui possano prender posto una realtà più malleabile, una comprensione più viva. Avremmo potuto credere che avrebbe prima di tutto evitato le immagini, le immagini spaziali e concrete, perchè utilizzarle avrebbe significato cedere nuovamente alla seduzione ingannevole dello spazio, riportare dinanzi alla coscienza lo “spettro” ossessionante che dobbiamo invece allontanare.

Dobbiamo constatare che Bergson ha fatto il contrario. Si serve proprio delle immagini per vincere la sua situazione paradossale nei confronti del linguaggio.[9]

 

Il mistero non è vago, non è sfumato. Il mistero è “una forma di conoscenza”, per usare le parole di Luzi. Intenderemo questo in entrambi i modi possibili: cioè esso costituirà il contenuto e il metodo di una conoscenza. “C’è una conoscenza per mistero” ci dice Luzi, cioè attraverso il mistero. Quale risulta essere la declinazione bergsoniana di questo metodo?

Qui Jeanne Hersch ci fa comprendere lo scopo (1) e i due caratteri (2,3) che rendono l’immagine così centrale nel metodo retorico e pedagogico di Bergson:

 

            1.   Quando mancano le parole per tradurre direttamente il pensiero, resta un mezzo: si può coinvolgere e trascinare la mente del lettore sul piano desiderato, su quel piano che sfugge al linguaggio. Poi si possono usare parole, cose, rapporti, movimenti estranei a quel piano, familiari alla lingua. La mente del lettore, una volta catturata, li trasporrà da sola. Bergson si è servito costantemente di questo mezzo. [...] Sembrerebbe che la chiarezza gli sia tanto più indispensabile in quanto l’oggetto – la durata pura – sfugge alla chiarezza della lingua.

            2.   Ecco perchè si serve delle immagini. Esse non servono solo a spiegare. Quando si dice che in Bergson le immagini sono delle argomentazioni, ciò non è del tutto vero, ma non è nemmeno del tutto falso. Un’immagine ovviamente non è un’argomentazione logica: un bambino può ricostruire un dipinto attraverso un lavoro di mosaico; questo non prova che, per ricostruire la realtà, noi ci diamo allo stesso tipo di lavoro.

[...] Tuttavia, un’immagine può servire da argomentazione nel senso che porta la mente a concepire certi rapporti come possibili. La nozione di complessità estrema, come quella dell’occhio, quando risulta da un movimento semplice, non ci è familiare. Se espressa astrattamente, questa relazione tra complessità e semplicità ci sembra quasi inconcepibile. Ma pensiamo al dipinto e al mosaico, pensiamo al gesto del braccio alzato: l’idea perde il suo carattere astratto, si avvicina ad esperienze già fatte materialmente. Acquisisce così, se non l’evidenza logica, almeno l’evidenza del possibile, o meglio l’evidenza del già visto.

            3.   [...] Ma le immagini sono delle argomentazioni anche in un altro modo, un modo più sottile, un modo che indigna profondamente Benda, che vi vede una prova di malafede e un’abilità da ciarlatano. Stabilendo il nesso tra l’idea nuova e il già visto, le immagini seducono la mente. La comprensione che Bergson ottiene attraverso di esse non è una comprensione logica. In logica, si capisce bene il ragionamento del pensatore; si può, pur comprendendolo perfettamente, trovargli un difetto e opporgli il ragionamento giusto. Bergson ci porta su un’altra strada. La difficoltà che egli incontra è di far concepire ciò che vuole. A questo scopo, moltiplica le immagini tratte dalla vita quotidiana e dal mondo materiale, fa appello a tutta la nostra esperienza concreta, e traspone. Non discute la questione se sia giusto fare questa trasposizione. Il suo scopo è arrivarci. Se ci riesce, ha vinto.

Di qui, nelle sue immagini, una forte componente di seduzione, di suggestione, come ad esempio in quella della melodia. Portano la mente ad assumere l’atteggiamento favorevole. Dando l’apparenza di volerla aprire al mondo esterno, ne prendono possesso, in profondità. L’anima intera s’interessa, l’anima intera si sente messa in gioco, e la lettura dell’opera diventa per essa un’esperienza. Se vuole capire, deve rivivere. Impossibile qui giudicare dall’esterno, capire e criticare simultaneamente. Solo in seguito l’esperienza fatta potrà essere esaminata e giudicata. Per ora è un’esperienza. E se c’è una cosa che non si mette in dubbio, è proprio ciò che abbiamo vissuto in prima persona.[10]

 

Ecco la sintesi del metodo comunicativo di Bergson. Egli cerca di individuare i principi che ontologicamente accomunano l’anima degli uomini; trova che in questa realtà due sono le teste di ponte che possono garantire una comunione, la “vita interiore” e l’“esperienza” che è la premessa e l’esito della prima: premessa perchè è solo attraverso le “cose” che ognuno di noi ha già toccato, visto, ascoltato, che si potrà gettare luce sul movimento che la “vita interiore” compie in noi. E sarà attraverso il ristabilito rapporto con la “vita interiore” che finalmente potremo vedere le “cose” veramente, farne realmente esperienza. Attenzione: per “vita interiore” intenderemo “vita soggettiva”, ma solo nella misura in cui questo termine non ci distragga dal fatto che l’élan vital in cui ognuno di noi è immerso scorre con un unico movimento. La maniera che ognuno avrà di vivere e di comunicare questa esperienza profonda sarà condizionato dalla sua personalità e dalla sua storia, ma l’“energia d’impressione” generata dalla corrente centrale resterà comune. Anche questa affermazione risulta, in fin dei conti, imprecisa. Bergson ci parla del “centro di forza” che costituirà l’energia più intima del pensiero. Questo “centro di forza” ha, nelle parole di Bergson, il sapore di un fatto interiore squisitamente individuale e, allo stesso tempo, radicato nel ritmo di quel fiato vitale che tutto attraversa. E’ il secondo paradosso di Bergson: quello di definire come peculiare, unico, ciò che è, nello stesso momento, intimamente comune e condiviso.

 

 

Dall'intelletto all'intuizione, dal concetto all'immagine

 

Bergson’s intuition philosophique is thus profoundly helpfull in understanding Eliot’s view of personality and the act of writing. The ground for this view remains, of course, “the primary experience” defined in Eliot’s early philosophical writings: “In feeling the subject and object are one”, and primary experience cannot therefore be “mine” for “I am only I in relation to objects”. Because this relation disappears in primary experience, so must our commonly held views of the self and the world. In immediate experience, the self merges in a “timeless unity” with the whole world. Thus, the most universal truth is the most intensely personal: “Each [mind or finite center] expanded to completion, to the full latent reality within it, would be identical with the whole universe” (Knowledge and Experience). For Eliot, this transformation of personality is an “impersonality” more significant than the impersonality of caft with world and form. The poet can always think of his work as like the “tutnin of a jug or a table leg”. It is harder to achieve the rendering of highly personal matter in a way that brings out its universality, reminding us of the unity behind our world of “subject and object”. The more profound impersonality “is that of the poet who, out of intense and personal experience, is able to express a general truth; retaining all the particularity of his experience, to make of it a general symbol”. Yeats, Eliot said, had achieved this. By becoming more Irish, Yeats become more universal, and Eliot called the line in which Yeats named his own age in a poem “a triumph”.[11]

 

Chi scrive tende ad attribuire a questo il motivo di una così vitale e feconda somiglianza tra lo stile Joyceano, quello Eliotiano, quello Woolfiano... L’“impersonalità” non coinciderà in alcun modo con uno svilimento dell’individualità: anzi essa è lo strumento perchè l’io possa ritrovare il proprio posto nell’universo, partecipando del suo movimento e quindi della propria natura profonda.

 

There is no conflict between the theorist of  “impersonality” and the poet who writes about his trips on the London tube in “Burnt Norton”. There has only been a misunderstanding about what impersonality meant to Eliot. It is the impersonality of intuition, an “extinction of personality” in the face of and for the sake of revealing an underlying reality. No good poetry, Eliot tells us in his introduction to Valery’s Le Serpent, is “divorced from personal experience and passion”. “Indeed”, he says, “the virtue, the marvel of Lucretius is the passionate act by which he annihilates himself in a system and unites himself with it, giving something greater than itself”.[12]

 

È chiaro che la parola “comunicazione” recupera, in Bergson e in Eliot, il suo antico significato, quello originale, radicale, e per questo ancora nuovo. Douglas, cercando di descrivere il debito di Hulme e del modernismo nei confronti di Bergson, cita le parole del filosofo inglese:

 

“The creative artist, the innovator, leaves the level where things are crystallized out into these definite shapes, and, diving down into the inner flux, comes back with a new shape which he endeavours to fix. He cannot be said to have created it but to have discovered it, because when he has definitely expressed it we recognize it as true,” The poet-empiricist visits the river beneath the static forms reflected from its surface; that river, like Eliot’s in “Dry Salvages”, is “within us”, a “reminder of what men choose to forget”. Hulme’s consonance with Bergson here is not a contradiction, if we recognize that Bergsonian intuition brings with it a “passionate desire for accuracy”, a deep wonder, and hunger to locate the “universal in the particular” – the Reality beneath reality.[13]

 

    Il linguaggio di Bergson coinvolge le immagini del mondo per condurci a noi stessi e per poi far sì che, con noi stessi, facciamo ritorno nel mondo. Esiste un nucleo comune nel profondo dell’anima così unica di ogni uomo. Su questo paradosso si fonderà l’idea di libertà di Bergson. Essa non consisterà esclusivamente in quell’indipendenza, fondata sulla solitudine, che con tanta forza i Simbolisti si impegnarono ad affermare. Ciò che l’artista rappresenta, quella realtà, quel sentimento della realtà era già in ognuno di noi; l’avevamo dimenticato, avevamo voluto dimenticarlo. Il rapporto vivo con quella “Realtà sotto la realtà” garantirà la libertà, garantirà il compimento di una vera comunicazione e quindi di una vera “comunità”. La “libertà di espressione”, di cui così spesso ci parla Ungaretti, non consiste nella consapevolezza di poter dire quello che ci pare, ma nella certezza che il contenuto di ciò che viene scritto o raffigurato possa parlare all’anima di ogni uomo. Stiamo parlando qui di una nuova oggettività: e la sua fisionomia possiede due tratti fondamentali. Quello delle case e degli alberi che ognuno di noi vede e quello del mistero che ognuno di noi pre-sente , “intuisce”, nella realtà, seppure in un intimo moto di terrore, negli istanti in cui, sorpreso dalla propria meschinità, comprende che dell’esistenza poco o niente andrà come immagina. Questa novità, che continuamente delude, contraddice o supera le nostre speranze, è il movimento instancabile dello spirito nella realtà. La libertà, per Bergson, sarà l’aprirsi dei nostri occhi alla curiosità di questa novità, la compartecipazione della nostra volontà all’élan vital, la schiavitù sarà il rifugiarsi nell’oblio, nella distrazione da questa verità. Il vero strumento per comunicare con gli altri uomini e per restare liberi non è l’intelletto che irrigidisce il movimento in concetti statici, nè il linguaggio come siamo stati abituati a concepirlo, poichè esso sarà il veicolo di quell’intelletto. Il vero strumento sarà l’intuizione e un linguaggio basato su di essa.    

Solo attraverso l’intuizione il mondo potrà fare ritorno dal luogo in cui la nostra mente lo aveva esiliato: dal rigor mortis del concetto; e l’intuizione è nell’immagine. A proposito di quanto detto ora e a proposito del paradosso tra soggettività e comunione citeremo l’esempio della “visione dell’acqua” portato dalla Hersch:

 

Sicuramente, quando parla di sfumature, è l’io profondo ch’egli vede sotto questa forma, è la realtà stessa ch’egli descrive e non un simbolo artificialmente giustapposto. È trasportato in parte dalla sua immaginazione visiva, in parte dal suo senso concreto e artistico della lingua. Da cui la straordinaria coesione delle immagini. Le sfumature e i riflessi evocano in modo del tutto naturale la visione dell’acqua e l’opposizione tanto bergsoniana tra l’acqua fluida e la crosta indurita. Sono le immagini che ho definito “di consistenza”. L’acqua è per gli occhi ciò che vi è di più fluido, di più cangiante di più ricco di sfumature e riflessi. È senza limiti, senza forma. E altre gocce d’acqua possono aggiungersi indistintamente – vi si perdono. Gli elementi estranei restano a galleggiare in superficie. L’immagine è adeguata sotto tutti i punti di vista. Bisogna notare che Bergson non osserva questi aspetti tutti in una volta. Li trova a mano a mano che sviluppa la sua idea. Non utilizza nemmeno l’immagine fino alla fine. È ancora più ricca. E questo prova che essa è vera, immagine concreta, sorta spontaneamente, e non intellettualmente giusta, associata artificialmente all’idea fondamentale. Non solo essa si rivela più adeguata quando la esaminiamo attentamente. Essa ha ancora un alone affettivo, soggettivo. Ci fa sentire, in questo stile dotato di chiarezza scientifica, l’impulso intuitivo: ha ancora il calore dell’anima, della concezione primaria nata dall’intero essere, intelligenza, visione, sensibilità.[14]

 

È come se il pensiero di Bergson, rimanendo saldamente ancorato all’intuizione e al suo centro di forza, custodisse la fecondità della visione. Nel senso della profondità e nel senso della quantità. L’immagine dell’acqua per esempio tende a esplodere verso mille direzioni di significato che pure restano coese e coerenti poichè irraggiate da un solo centro semantico: la fluidità. E quest’ultimo non sarà compreso solo dalla visione dell’acqua, ma anche da quello della melodia, della lava, della danza. Per Bergson nell’intuizione nasce la possibilità di lasciarsi condurre dall’immagine, di affidarle, certo entro limiti sorvegliati, lo sviluppo del pensiero e il procedere del linguaggio. E questi saranno fecondi nella misura in cui non avremo frapposto false barriere tra la nostra ragione e la nostra esperienza:

 

Ci sarebbe dunque in questo uso delle immagini un inganno, un gioco di prestigio, come asserisce Benda? Ma certamente no. È facile constatare quando si è in buona fede, che il pensiero stesso di Bergson si fonda sul vissuto, sul visto. Altrimenti le sue immagini non avrebbero il potere di far vedere e di far vivere. Se egli ha potuto fare la sua filosofia, è perchè in lui il mondo del vissuto e il mondo ragionato non sono rimasti separati da una parete spessa.[15]

 

Lo sviluppo di un pensiero, la sua costruzione,  e il desiderio di conoscere non sono più concepite come due fasi separate del procedere filosofico. Esse vivranno nello stesso istante tanto più armonicamente, quanto più intenso sarà lo sguardo che rivolgeremo alla nostra anima, attraverso la memoria, e al mondo, attraverso il presente dei sensi e della ragione. L’unità e l’integrità delle immagini deriveranno dalla loro aderenza all’intuizione che vorranno suggerire. Per questo la loro sintassi non deriverà la sua continuità di senso da una somiglianza “scenografica”, ma dal movimento unico dell’intuizione sottesa ad essa. Il fulcro del rapporto tra le immagini è il movimento del pensiero. Pensiero che, per una parte del suo procedere, sarà condotto dalle immagini che germineranno in esso.

 

Diremo dunque, con Benda, “ciò significa prendere delle metafore per delle realtà... Il pensatore è Victor Hugo”? Ma no, Bergson non prende le metafore per realtà. L’abbiamo visto, è lui il primo a respingerle quando rischiano di prendere troppo spazio nel suo pensiero. Quel che conserva di veramente reale, sono i rapporti che le immagini ci permettono di cogliere. Prova ne è il fatto che troviamo raramente un’idea difficile da concepire rappresentata da una sola immagine. Più spesso ve ne sono molte, assolutamente differenti quanto alla loro “materia”, (possono anche essere state suggerite da sensi diversi), ma che contengono lo stesso movimento o lo stesso rapporto.[16]

 

Chiameremo visione questo insieme organico e dinamico di immagini che non può dirsi indipendente dalla volontà del suo autore, ma nemmeno totalmente dipendente. La realtà, attraverso le immagini e attraverso la forma che esse prendono nel linguaggio, viene in soccorso alla nostra coscienza per dare un volto al significato, non appena una parola. Lo spirito non è più confinato nella nostra coscienza e nel nostro subcosciente, come non è più esiliato al di là dell’apparenza delle cose. Ancora meglio, le due dimensioni di io e realtà sembrano essere portati verso una dipendenza ontologica. Questo portò, a inizio Novecento, a quel tipo di poesia metamorfica così presente in D’Annunzio e in Pound. Ma la riscoperta di una dipendenza così intima tra l’unità e l’identità dell’io e l’unità e l’identità della realtà, portò anche a una poesia di contenuto diverso, a quella di Eliot, per intenderci. In ogni caso vediamo riapparire l’universo in tutta la sua ampiezza e consistenza e dentro di esso la figura dell’uomo, di nuovo attenta e curiosa del segreto, smarrita, nelle mani un tremito di paura e desiderio.

Per riassumere brevemente quanto detto finora: qual è l’aspetto del linguaggio cui toccherà il ruolo più importante nell’incanalare la coscienza del lettore verso l’intuizione e distoglierlo dalla rigidità della logica? Ovviamente la sintassi.

 

Not the bit of dust and paper in the Metro, but the wind that stirs them should attract our attention; yet it is only through the bits and pieces that the wind makes itself known to us.[17]

 

È nel passaggio, nella tensione viva tra un’immagine e l’altra che agli occhi della nostra memoria e della nostra immaginazione sarà richiesta un’agilità cui essi non sono mai stati educati. Sempre seguendo quanto dice la Hersch il movimento del pensiero è diverso per ogni uomo. E’ quindi evidente come il linguaggio e il ritmo sintattico usati da Joyce per rappresentare la visione non coincideranno con quelli Eliotiani, o con quelli Proustiani, o Ungarettiani. Potremo però percepire una somiglianza profonda tra queste scritture, che si incardinerà su un modo nuovo di vedere la realtà nel tempo.

Bergson non è rivoluzionario solo nel contenuto del suo pensiero, ma nell’atteggiamento che egli chiede a chi ascolta per potere essere compreso. Lo stesso atteggiamento, ci azzardiamo a dire, che chiederà Eliot in The love song of J. Alfred Prufrock. Per potere comunicare il tempo, cioè per metterlo in comunione, non sarà necessario soltanto chiarire l’idea che del tempo si ha, e nemmeno esporre l’immagine che vediamo accadere nel tempo, ma anche illuminare il movimento unico ed essenziale che il tempo mette in moto tra le immagini in ognuno di noi.

 

If one, settling a pillow by her head,

Should say: “That is not what I meant at all.

That is not it, at all.”

 

And would it have been worth it, after all,

Would it have been worth while,

After the sunsets and the dooryards and the spinkled streets,

After the novels, after the teacups, after the skirts that trail along the floor –

And this, and so much more?[18]

 

Dove il metodo Bergsoniano creerà la frattura più profonda? Certamente in questo linguaggio che non chiede logica, ma intuizione, la comprensione dello slancio che il desiderio d’amore dovrà compiere sull’abisso che si stende tra sè e il cuscino, tra il cuscino e il proprio fallimento, tra quest’ultimo e la chiara tristezza in cui si stendono i ricordi. Questo modo di usare il linguaggio non potrà essere scimmiottato, perchè al di fuori di questa tensione, che rende visibile e condivisibile l’esperienza interiore attraverso le immagini, non esiste che il buio più fitto. Questo modo di scrivere si accosta troppo al punto di collasso del linguaggio perchè chi rifiuti intuizione e mistero sia in grado anche solo di avvicinarsi alla tensione verbale raggiunta dai grandi. Eliot e Ungaretti, come gli altri già citati d’altronde, ci mostrano come in poesia ci sia da rischiare ben più che molti anni di addestramento metrico e retorico. In palio c’è un modo vero di vivere attraverso il linguaggio e il pensiero, la sconfitta combacerà con il fallimento del linguaggio, del pensiero e, quindi, di una civiltà.

Dopo avere letto la Hersch si capisce come Bergson non abbia solo incardinato i vari aspetti della filosofia (ontologia, gnoseologia, estetica, metafisica...) su un unico centro, ma abbia anche mostrato come, compiendo questa impresa, il linguaggio della filosofia e della poesia fossero animati da una comunione originale, attraverso l’immagine. Possiamo dedurre da qui quanto sia illegittima l’idea di far derivare da  Bergson un’arte che utilizzi l’“intuizione” come pretesto per una scoordinata sequenza di immagini più o meno vivaci e per un uso disarticolato del linguaggio. Per questa ragione gran parte della letteratura futurista, e in generale d’avanguardia, nel ‘900, mostra di non comprendere la profondità verso cui era stata condotta l’idea di movimento. Come dice Ungaretti,

 

Senza dubbio, di questo tempo bergsoniano, non il dinamismo plastico che pigliava una questione di qualità per un problema di meccanica, insolubile, come problema di meccanica, con i mezzi dell’arte, nè la simultaneità lirica che si lusingava di far contemporaneamente funzionare, come fa un giornale, fatti successi ai quattro canti del globo, dovevan aver la pretesa d’aver trovato la formula estetica.[19]

 

Lo stesso Ungaretti proseguendo il suo discorso, ci indica la ragione principale per cui i simbolisti, in particolare Mallarmè e Baudelaire, non furono bergsoniani:

 

Altri, più ragionevolmente, si diede a almanaccare intorna a un’arte pura. Bergson allude di quando in quando a una sensazione purgata d’ogni torbido affettivo. Quella sensazione, sgorgando in una pura forma, e rinnovandosi, e sempre tornando a fiorire, e germinando ancora, in una perfetta continuità, non attuerebbe il tempo bergsoniano? Si videro i cubisti. E si udirono poesie nelle quali le parole si dilatavano, acquistando in intensità musicale, evocativa, in flessuosità ciò che avevan perso in rigor di logica. Ma di questa tendenza, Gide, con la sua abituale finezza, in una vecchia replica a Faguet buon’anima, ci ha mostrato che, in Baudelaire, già si possono scorger tracce. L’unico anelito di Mallarmé, per il quale l’universo era il sonetto che sognava di scrivere, è stato di salire sino alla poesia pura. Ne Baudelaire nè Mallarmé potevan esser bergsoniani. Conoscevano Hegel, e probabilmente soltanto attraverso Poe.[20]

 

Come abbiamo già detto la corrente pura del Simbolismo sgorgò e crebbe sotto il pesante influsso idealista e non desiderò che condurre questo influsso alle estreme conseguenze. Bergson non seguì questa rotta, la invertì, e, senza arrivare al capo opposto, ripose la verità nel rapporto tra la realtà e il nostro io, riabilitando la “dignità ontologica” di entrambi. Subito dopo il brano citato appena sopra, Ungaretti scrive ancora:

 

È bergsoniano Valéry? L’arte di Valéry si riallaccia a quella di un Petrarca, di un Raffaello, di un Fidia, è l’arte che dà immagine alle idee, che fiorisce dalla contemplazione, è lirica dell’intelletto. Può darsi, anzi avviene, che gli estremi si tocchino e che suscitando la perfezione, insieme si susciti l’evoluzione perpetua dell’effimero.[21]

 

In seguito Ungaretti parlerà dell’inseparabilità di Proust da Bergson. E Ungaretti ci parla di un paradosso, lo stesso presente in Joyce, o in Eliot. E’ attraverso un’arte che dia immagine alle idee che avviene il miracolo della “perfezione”: l’“evoluzione perpetua dell’effimero”. Siamo d’accordo con Ungaretti, pur trovandoci obbligati a frenare il suo impeto. Ciò che si riprodurrà nel linguaggio (sia essa la poesia più cristallina e profonda) sarà solo il tentativo, più o meno, ma mai completamente riuscito, di riprodurre ciò che realmente accade dentro il flusso dell’élan vital. Egli comunque elenca poche caratteristiche fondamentali: “è l’arte che dà immagine alle idee, che fiorisce dalla contemplazione, è lirica dell’intelletto”. Aumenta la profondità del paradosso bergsoniano, e la sua forza.

 

Bergson’s artist does not introduce feelings or ideas into us, but “introduces us into them, as passerby are forced into a street dance” (The Two Sorces of Morality and Religion).[22]

 

Se ci limitassimo a guardare superficialmente verrebbe facile affermare che questo metodo si basa esclusivamente sui concetti osteggiati dal filosofo francese: le idee contro l’intuizione e lo spazio contro il tempo. Ma non è così. Abbiamo appreso, attraverso una breve lettura del saggio della Hersh, come l’obiettivo principale di Bergson nei confronti dei suoi ascoltatori sia quello di portarli in una nuova dimensione del conoscere. Essa potrà germinare in chi ascolta nella misura in cui la coscienza di quest’ultimo si educherà alla contemplazione, al gesto dello sguardo e non a una mera elaborazione di dati astratti. Così sarà assicurata alla realtà la possibilità di essere comunicata nella vividezza e nella forza della sua presenza immediata.  Per questa ragione le idee diventano dei luoghi in cui il lettore è invitato a entrare. Ma non basta: la tendenza del nostro intelletto ci porterà immediatamente a voler estrarre dalle immagini il loro significato. Questa espressione contiene, secondo il pensiero e il linguaggio bergsoniano, una contraddizione in termini. Il significato non è estraibile dall’immagine. Il significato non è un concetto.

Cosa intenderemo per “lirica dell’intelletto”?

 

Thus Bergson offers a vocabulary for describing how the well-wrought poem may embrace its medium and yet achieve an epiphany of spirit. The poem’s unity of form is achieved by mental – that is, scholastic – effort, but the poet is precisely that person who has kept his “ideas in touch with his feelings and his soul in touch with life” (Laughter: An Essay on the Meaning of the Comic). Intellectual effort, in the common sense, is comparatively easy “and can be prolonged at will”, but the intuition of the artist is “arduous and cannot last” (The creative Mind). Such effort can achieve however “the unity of a ‘directive idea’ common to a great number of organized elements,” the very unity of life” (Mind-Energy: Lectures and Essays). In the center of the winds of flux, there is an eye, a still point. “Above the word and above the sentence there is something much more simple than a sentence or even a word: the meaning, which is less a thing than a movement of thought, less a movement than a direction” (The Creative Mind). Through properly constructed art, we may achieve fleeting contact with something like this directive principle, according to which, as Wittgenstein says, words mean what they do.[23]

 

Bergson esalterà l’intelletto come l’unico strumento attraverso il quale sia possibile “costruire”, “dare forma” alla visione, ordine e luce alla rotta “intuita” attraverso le immagini. Questa attenzione scrupolosa all’architettura non contrasta perciò con una poetica dell’intuizione. La premura della forma sfiorerà l’ossessione in Eliot e in Ungaretti, ma lo scopo sarà differente dal passato in ragione di un nuovo pensiero nato in quegli anni. Come rendere “fluida” la struttura, come renderla somigliante all’evento impensabile e imprevedibile della realtà profonda? Cambierà l’orizzonte e quindi cambierà lo stile. Il significato è “meno una cosa che un movimento di pensiero, meno un movimento che una direzione”. Esso non sarà più fatto corrispondere ai vari concetti conchiusi nelle singole immagini, ma nel movimento globale creato dal susseguirsi di esse, meglio dalla loro constellazione. Niente di nuovo sotto il sole. Questa poetica era già stata concepita e realizzata secoli prima da Dante Alighieri. Si trattò, per quanto riguarda Eliot, Ungaretti e il  gruppo di scrittori già più volte nominato, di dare voce nuova a una visione che già aveva avuto luogo nella storia, ma che era stata smarrita. Questa voce nuova avrebbe dovuto fare i conti con la frammentazione della coscienza moderna.

 

Bergson’s Introduction to Metaphysics had certainly provided Hulme with an obvious vocabulary to talk about the necessity for this incessant exhausting reorientation of vision poetry demands of its readers. The poet’s images “keep us in the concrete. No image can replace the intuition of duration, but many diverse images, borrowed from very diverse orders of things, may, by the convergence of their action, direct consciousness to the point where there is a certain intuition to be seized” (Introduction to Metaphysics). Here is the Imagist aesthetic passed on by Hulme, who acted as both translator and promoter of the book in which it appeared. It helps explain both Pound’s revisions of The Waste Land, where ruthlessly pared away context and elaboration, and his own strategies of “indirection” in the Cantos.[24]

 

Nessuna immagine può sostituire l’intuizione, ma molte immagini diverse, prese da ordini molto diversi di cose, possono condurre ad essa. Più avanti Douglas insisterà:

 

Thus Bergsonian aesthetics help us understand why that artifact, the Modernist text, comes to look and feel the way it does. M.L Rosenthal and Sally Gall have actually claimed that there is a “modern poetic sequence” that is a genre in itself (like the sonnet). Whether we accept this or not, certainly there is a common vocabulary among many Modernist poets that springs from the root we are tracing, and one might as well call it a “sequence” whose goal is to keep alive the intuitive “formulation” of the poet through the conscious creation of tensions: “By choosing images as dissimilar as possible, we shall prevent any one of them from usurping, then be driven away at once by its rivals. By providing that… they all require from the mind the same kind of attention, and in short the same degree of tension, […].”[25]

 

Queste parole ricordano chiaramente una affermazione fatta da Ungaretti in Ragioni di una poesia, e già citata in questa tesi. 

 

Se il carattere dell’800 era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo – il poeta d’oggi cercherà dunque di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all’innocenza, quale lontananza da varcare, ma in un baleno. [...]

Quando dal contatto d’immagini, gli nascerà luce, ci sarà poesia, e tanto maggiore poesia, per quest’uomo che vuole salire dall’inferno a Dio, quanto maggiore sarà la distanza messa a contatto. Crediamo in una logica tanto più appassionante quanto più si presenti insolubilmente ricca d’incognite.[26]

 

Entrare in contatto con il senso di una poesia sarà percepire la direzione, il punto di fuga nel disegno generato dalle sue immagini e dalla tensione che il loro rapporto produce. L’ininterrotto ritmo visuale avrà lo scopo di non dare tregua allo sguardo interiore del lettore. Gli occhi sono l’unico pontile lanciato verso l’intuizione, e quindi verso il mare dell’essere.

 

Aldous Huxley, whose theory of perception owes a great deal to Bergson, deifned them as revelations of the “impossible paradox and supreme truth – that perception is (or at least can be, ought be) the same as Revelation, that Reality shines out of every appearance, that the One is totally, infinitely present in all particulars”. [27]

 

Douglas definisce questo Uno come “an eye in the center of the winds of flux”, un occhio al centro delle correnti. Il mistero vive. Il presentimento della sua presenza disturba la nostra vita, continuamente, attraverso il desiderio, lo stupore, il limite della morte, di ogni nostra incapacità.

 

IRONIA

 

Odo la primavera nei rami neri indolenziti. Si può seguire solo a quest’ora, passando tra le case soli con i propri pensieri.

È l’ora delle finestre chiuse, ma

questa tristezza di ritorni m’ha tolto il sonno.

Un velo di verde intenerirà domattina da questi alberi, poco fa quando è sopraggiunta la notte, ancora secchi.

Iddio non si dà pace.

Solo a quest’ora è dato, a qualche raro sognatore, il martirio di seguirne l’opera.

Stanotte, benchè sia d’aprile, nevica sulla città.

Nessuna violenza supera quella che ha aspetti silenziosi e freddi.[28]

                                                                                                             

Who is the third who walks always beside you?

When I count, there are only you and I together

But when I look ahead up the white road

There is always another one walking beside you

Gliding wrapt in a brown mantle, hooded

I do not know whether a man or a woman

- But who is that on the other side of you?[29]

 

È come se un altro sguardo, una presenza misteriosa, incombesse su di noi all’altro capo dell’abisso. Eppure quest’inquietudine: come se, nello stesso istante, chi ci guarda da dentro il mistero, fosse vicino, troppo vicino.

 

His soul stretched tight across the skies

That fade behind a city block,

Or trampled by insistent feet

At four and five and six o’clock;

And short square fingers stuffing pipes,

And evening newspapers, and eyes

Assured of certain certainties,

The coscience of a blackened street

Impatient to assume the world.

 

I am moved by fancies that are curled

Around these images, and cling:

The notion of some infinitely gentle

Infinitely suffering thing.

 

Wipe your hand across your mouth, and laugh;

The worlds revolve like ancient women

Gathering fuel in vacant lots. [30]



[1] G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di H., 1960

[2] E. Husserl, Ideen I, pg. 104

[3] Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, pg. 301

[4] Jeanne Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, allegato a Lucrezio di Henry Bergson, pg.107

[5] [5] Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, pg.304

[6] Jeanne Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, in Lucrezio di Henry Bergson, pg. 98

[7] Ibid., pg. 100

[8] Laura Boella, Pensare per immagini, in Lucrezio di Henry Bergson, pg.7

[9] Jeanne Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, in Lucrezio di Henry Bergson, pg. 131

[10] Ibid., pg. 132

[11] Douglas, Bergson, Eliot & American Literature, pg. 75

[12] Ibid.

[13] Ibid., pg. 33

[14] Jeanne Hersch, Le immagini nell’opera di Bergson, allegato a Lucrezio di Henry Bergson, pg. 109

[15] Ibid., pg.135

[16] Ibid., pg.136

[17] Douglas, Bergson, Eliot, & American Literature, pg.37

[18] Se qualcuno, mettendole un cuscino sotto il capo,/Dicesse:“Non è per niente questo che volevo dire./Non è questo per niente”./E ne sarebbe valsa la pena,dopo tutto/Ne sarebbe valsa la pena,/Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia,/Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento – E questo, e tante altre cose? – T.S. Eliot, The love song of J. Alfred Prufrock

[19] G. Ungaretti, L’estetica di Bergson in Saggi e Interventi, pg.84

[20] Ibid., pg. 85

[21] Ibid.

[22] Douglas, Bergson, Eliot, & American Literature, pg.37

[23] Ibid.

[24] Ibid., pg. 40

[25] Ibid., pg. 42

[26] Giuseppe Ungaretti, Ragioni di una poesia in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Ed. Mondadori, Oscar Grandi Classici, 1992, pg. LXXX

[27] Douglas, Bergson, Eliot, & American Literature, pg. 38

[28] Giuseppe Ungaretti, Ironia, da L’Allegria

[29] Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?/Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme/Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca/C’è sempre un altro che ti cammina accanto/Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato/Io non so se sia un uomo o una donna/- Ma chi è che ti sta sull’altro fianco? - T.S. Eliot, da What the Thunder said, in The Waste Land

[30] L’anima sua si tendeva nei cieli/Che dietro un blocco cittadino svaniscono,/Oppure calpestata da piedi insistenti/Alle Quattro e alle cinque e alle sei;/E corte dita quadrate riempiono le pipe,/E giornali della sera, e occhi/Resi sicuri da certezze indubbie,/La coscienza di una strada annerita/Impaziente di assumere il mondo./Io sono mosso da fantasie che s’attorcono/Attorno a queste immagini, e s’attardano:/La nozione di qualcosa che è infinitamente/Dolce e infinitamente soffre./Strofinatevi la mano sulla bocca, e ridete; I mondi ruotano come antiche donne/Che raccolgono legna in terreni da vendere. - T.S. Eliot, Preludes, in Prufrock and Others Observations

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