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La forma musicale*

Carlo Matti

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Azzardo su larga scala, saltare e guardare il mondo dall’altezza dei satelliti, dall’altezza delle stelle: questo è il gioco dell’artista e dello scienziato (dello scienziato Galileo che tenta nuovi paradigmi, non del topo di laboratorio, dell’artista reso folle dalla verità, non del Bernini obbediente scenografo).

Dire l’architettura del mondo con le mani di Borromini, disegnare con l’occhio di Leonardo, cantare con l’orecchio di Josquin, ridire, ridisegnare e cantare di nuovo, come un’infiltrazione d’umidità nei muri della cultura e del linguaggio: questa è l’opera del cercatore e guerriero che sopporta il peso di un’ombra, fin dal primo tentativo, fin dal primo azzardo.

Ecco l’ombra: io disegno, dico, canto per dire io, per affermare vita, ma non è forse tutto già detto, già esistito, non sono io soltanto ripetizione, traduzione, figlio e mai padre? L’ombra è la morte, l’esser già esistito, l’esser solo interprete e mai creatore.

Nell’attimo della luce non c’è tempo per l’ombra. L’attimo è creazione e vita. L’ombra è per la riflessione, è il tempo della storia, del ricordo, del ripensamento, è nell’ombra che si leggono e risuonano i nomi dei grandi del passato, le citazioni, le epigrafi, i punti di vista, il confronto.

La musica è dell’attimo, certo più che la pittura, come già osservava Nietzsche, e qui rileggere e ridire, sezionare e dichiarare le tecniche compositive di due miei brani di musica elettronica quadrifonica – The Mind e Acqua 21 – è come consegnare le armi, è congelarsi in mattone da aggiungere al muro della cultura. Certamente è tradire l’opera, tradire il mio tentativo di descrizione del mondo, così che della musica resta solo un’ombra senza divenire, ma contemporaneamente è rendere accessibile – per analogia – il linguaggio dell’opera. La mia opera è la mia opera, incomprensibile al di fuori della mia opera, ma l’analogia può permettere di intuire le caratteristiche del mio linguaggio, così che possa divenire arma da caccia per molti. Comprendere e fruire di questi due brani di musica partendo da questo scritto è come tentare di apprendere una lingua ad orecchio, senza studiarne le strutture grammaticali, non è una via privilegiata alla comprensione.

O forse è la mia pretesa di unicità e di scelta, la mia illusione di irripetibilità che mi fa scrivere al lettore questo avvertimento? Non sono le mie opere già scritte, già dette, ed eternamente ripetute? Non sono le mie opere già perfettamente comprensibili nella cultura, umana manifestazione della vita naturale dell’universo?

Sono condannato, come gli uomini, ad avere due occhi, quello che intuisce la vita dell’universo come in uno specchio (uno di quegli antichi e imprecisi specchi che usava Paolo mentre scriveva la lettera ai Corinti), e quello che vede le mie viscere muoversi e contorcersi per la fame e gli affetti spinoziani (che oggi, almeno parzialmente, tradurremmo con la parola “emozioni”).

Nelle mie opere un occhio vede il peso, grave per me ma irrilevante per il mondo, dell’affectus, l’altro la connessione con la ragione dell’universo, l’eterna vita. Non è certo la mia emozione o il mio affectus a rendere artistica la mia opera, ma nondimeno la mia vita, la mia necessità di linguaggio, la mia fame si manifesta a me come un’affectus. Io cerco di disegnare l’eterna Razionalità del mondo, ma quella Razionalità si manifesta a me come voglia di Vita e di Piacere, l’eterna Razionalità è anche la mia vitalità. Ecco la doppia natura dell’opera d’arte, doppia come gli uomini, ed ecco l’ombra, che pesa come nebbia d’inverno.

 

 

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The Mind è composto da due sezioni, due come i due occhi degli uomini, come io e me, come l’archè e la storia, come ragione e affectus. Forse lo scisma, la ferita e la lotta senza riposo del numero due è legata ai due emisferi del mio cervello di essere umano: se così fosse, sarebbe una buona ragione in più per scrivere e realizzare una forma musicale in due sezioni, e non lasciarsi comodamente sprofondare nella classica tripartizione come in una morbida poltrona.

La musica sino al XX secolo è sempre stata in qualche modo tripartita, attratta dall’irresistibile forza di Hegel e della sua dialettica tanto ordinata quanto innaturale, tanto risolta e quieta, fiduciosa e piena di speranze che non sa resistere neppure ad una lieve tempesta chimica del corpo. Come potrebbe resistere alle tempeste del mare che affondano persino le navi dei pirati?

La musica è tripartita fino al XX secolo. Non bisogna lasciarsi ingannare dai quattro movimenti delle sinfonie classiche e ottocentesce, quattro movimenti  tra i quali uno è sempre – almeno in parte – decorativo e riposante, superfluo. Si pensi addirittura al secondo movimento della grandiosa Nona Sinfonia di Beethoven: non aggiunge forse troppo poco al percorso concettuale dell’opera per essere separato nettamente dal primo? Non indulge forse nel ritmo di danza proprio per riposare l’ascoltatore dopo la vertigine del primo movimento e per prepararlo all’altezze mistiche del terzo e del’quarto che culmina nella razionale e meravigliosa utopia dell’Inno alla Gioia? Non hanno forse funzione simile i movimenti simili a minuetti nelle ultime opere di musica da camera di Brahms? E Berio non aggiunge alla sua Sinfonia il quinto movimento per suparare la tripartizione che si insinua anche in quella sua opera portentosa?

La tripartizione è la tentazione di ritorno all’ordine, retaggio dei classici.

Confesso che forse più serenamente comporrei se avessi questa fede nel numero tre, ma non posso far altro – per ora almeno – che fermarmi al due, perché non vedo nel mondo nessun compimento, non vedo nessuna pienezza se non nella continua lotta, perché non ho fiducia nell’essere umano, che sta ormai per terminare la sua crescita e sta per essere superato. Il due è l’irrisolto, l’incompiuto, l’azzardo, la sfida, la guerra non ancora vinta, è l’eroe tragico.

The Mind è composto da due sezioni, la prima che termina dopo 3’:07” dall’inizio del brano, e viene chiusa da un enorme cluster, un crollo di note, quasi una catastrofe, esattamente identico a quello che apre – con gesto tragico – il pezzo.

 

 

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Tutta la prima sezione è costruita su uno schema di sei note:

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Questo schema viene utilizzato nel pezzo, dal punto di vista compositivo, in un modo simile a quello delle formule di Stockhausen, cioè come elemento che  regge completamente la scrittura del pezzo, che viene utilizzato sia come tema, sia come impalcatura armonica e intervallare.

La forma musicale 02Lo schema di sei note viene enunciato in apertura, come fosse il tema di una fuga di Bach, nota per nota, con lentezza matematica, subito dopo il crollo iniziale, come fosse l’equazione che descrive un fenomeno fisico.

Questo schema di sei note è la Razionalità, è la garanzia dell’ordine e connessione delle idee e delle cose, come direbbe Spinoza.

Ogni nota è assegnata ad un punto nello spazio attorno agli ascoltatori, secondo la disposizione di figura 1, in modo che le note che l’ascoltatore percepisce provenire dal lato sinistro sono due quinte giuste sovrapposte Re-La e La-Mi, così come le note che l’ascoltatore percepisce sul lato destro sono altre due quinte giuste sovrapposte Fa#-Do# e Do#-Sol#. Se lo spazio viene diviso in tre sezioni dal retro dell’ascoltatore sino al fronte, in ogni sezione sono presenti due note (Re-Fa#, La-Do# e Mi-Sol#) a distanza di terza maggiore.

Tutto il pezzo è costruito su queste sei note che, per tutta la durata del brano  (se eseguite singolarmente e non all’interno di un accordo o di un frammento tematico, e qualunque sia il timbro con cui le note verranno prodotte) compariranno sempre nella posizione indicata nello schema,.

La rilevanza di questa sorta di formula, definita sia da altezze determinate dei suoni, sia da una loro precisa collocazione nello spazio, viene sancita esplicitamente tra 0’:14’’ e 0’:34’’, all’inizio del brano, quando le sei note fondamentali vengono udite dall’ascoltatore con timbro di pianoforte (non perfettamente accordato), ognuna collocata nel luogo ad essa riservato. Le stesse sei note vanno a formare le più o meno rapide successioni di suoni che si possono udire tra 0’:29’’ e 0’:34’’, o anche tra 7’:18’’ e 7’:20’’, con colorazioni timbriche molto diverse (dalla chitarra all’armonium) e frutto di complesse mescolanze.

L’unica dimensione sonora che varia continuamente all’interno della prima sezione del brano, e che non è vincolata in nessun modo alla formula è l’aspetto timbrico.

 

 

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Tra 0’:34’’ e 2’:22’’, benché le note che l’ascoltatore può udire siano sempre e soltanto quelle della formula iniziale, il timbro con cui sono prodotte varia continuamente. Questa sezione del brano è stata realizzata con strumenti diversissimi tra loro: chitarra elettrica, pianoforte elettroacustico, organo a canne (con diversi tipi di registrazione) e diversi tipi di sintetizzatori, sia analogici che digitali, ognuno registrato indipendentemente, e spesso anche filtrato e modificato per via digitale.

Il timbro di ogni strumento si intreccia, si mescola e si confonde con quello degli altri per mezzo di crescendo e diminuendo ottenuti digitalmente, di modo che l’ascoltatore abbia la percezione di una metamorfosi timbrica, continuo divenire e movimento, pur nell’immobilità delle note della formula, ora sovrapposte a formare un accordo che le comprende tutte.

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Questa prima sezione del brano è simbolo del divenire vitale del mondo, sempre uguale a sé stesso (le stesse note) e sempre mutevole (la continua seppur lenta trasformazione del timbro), Razionalità sfuggente e dinamica, movimento inarrestabile e regola immutabile, vitalità surrealista e barocca, detta con un linguaggio che molto deve alla micropolifonia di Ligeti, alle ricerche sul timbro del Weber dodecafonico e persino alla polifonia fiamminga di Josquin Des Prez.

Dichiarare manifestamente l’identità culturale (surrealismo, barocco) e in alcuni casi personale (György Ligeti, Karlheinz Stockhausen, Baruch Spinoza tra gli altri) dei miei padri artistici e storici – di coloro che io ho scelto come padri – permette di inserire la mia musica nelle mura della cultura, che proteggono e soffocano le città europee, ma sfugge alla mia descrizione l’esperienza dell’ascolto, la creazione sonora della mia mappa del mondo, una mappa che è prima sonora, prima musicale e solo in seconda battuta concettuale. Mai ho progettato nel dettaglio lo svolgersi concettuale di una mia opera, perché non sono mai riuscito a definire la mia esperienza fuori dall’attimo del discorso, dello svolgersi dell’azione: la musica, la creazione di musica è per me esperienza sonora, evento musicale mentale prima che scrittura e definizione. L’oralità ha la meglio sulla letteratura. L’ascolto e la partitura di una mia opera sono distanti dalla mia idea ed esperienza musicale mentale (che è ascolto vivido e per alcuni aspetti dettagliato di suoni “nelle mie orecchie mentali”) tanto quanto l’immagine di un campo di papaveri è distante dal profumo di inizio estate (con tutte le sue implicazioni nell’idea e nell’affectus).

Proseguo ora la (vivi)sezione della mia opera The Mind (che mi procura sollievo da un lato ed inquietudine dall’altro, entrambe sensazioni intrise di vanità) con l’analisi e la discussione della seconda sezione del brano.

 

 

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A 2’:22’’ compare, crescendo lentamente, un accordo di mi bemolle maggiore (sib-mib-sol), artificio retorico che spezza ed inquina la surreale evoluzione timbrica dei primi due minuti del pezzo, che con un crescendo ed accumulo di materia musicale alla maniera di Stravinsky nella Sagra di primavera, culmina nel ripetuto crollo, enorme cluster che chiude la prima sezione di The Mind.

La seconda sezione del brano è divisa in sei parti più una coda, così organizzate:

 

1)     da 3’:07’’ a 3’:54’’ la musica è costruita attorno alla nota mi;

2)   da 3’:54’’ a 4’:42’’ la musica è costruita attorno alla nota re diesis;

3)    da 4’:42’’ a 5’:23’’ la musica è costruita attorno alla nota si;

4)   da 5’:23’’ a 6’:23’’ la musica è costruita attorno alla nota sol diesis;

5)    da 6’:23’’ a 6’:49’’ la musica è costruita attorno alla nota la diesis;

6)   da 6’:49’’ a 7’:56’’ la musica è costruita attorno alla nota fa diesis;

7)    da 7’:56’’ inizia la coda che chiude il brano.

 

Riassumendo le prime sei parti si sviluppano attorno a sei note (mi, re diesis, si, sol dieisis, la diesis, fa diesis), che sono le stesse note della formula iniziale trasportate di un tono sopra.

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Tutta questa seconda sezione del brano, da 3’:07’’ di seguito, è la percezione storica del divenire primordiale, energia della vita. Nella realizzazione storica l’energia primordiale non può essere mai sentita dagli uomini come realtà unitaria (l’accordo immutabile della prima sezione di The Mind), ma viene percepita nei suoi innumerabili aspetti, vista da innumerabili prospettive, si sviluppa in una storia che è storia di singoli, di mondi culturali separati, di fratture, di apparenti discontinuità che sono manifestazione continua del conflitto vitale che regge il mondo.

Le varie sezioni della seconda parte del brano sono così come incarnazioni differenti dello stesso divenire eterno, come movimenti di una suite barocca, legati e coordinati dal debole filo della voce cantata, simbolo del singolo, della coscienza e della parola.

La coda del brano è costruita sempre sulle note della formula iniziale, ma trasportate di una sesta maggiore sopra.

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La voce, il canto, la melodia sono il simbolo della nascita, del risveglio, dell’inizio della coscienza, dello sdoppiamento del mondo in io e me. Il canto è storia, è la mia percezione, è racconto e identità, memoria, è parola. Il canto lega e coordina, scandisce e disegna il trascorrere temporale, solo parzialmente comprensibile dagli occhi e dal cervello degli esseri umani. Tutta la seconda sezione di The Mind è la prospettiva umana sull’eterno divenire e crescere e superarsi, è la prospettiva della formica che pensa che il filo d’erba sia un monte altissimo, una prospettiva certo ridotta, immagine prodotta da una debole vista, ma esperienza vitale e piacevole per gli uomini, così bella nel suo dramma. Bellezza è utilità, piacevolezza, godimento, eros.

Ecco la voce dell’opera ottocentesca italiana, la bellezza della vitalità umana, del corpo e dell’eros umano, unica vitalità utile all’uomo, che gli permette di rigenerare anche l’energia della Natura! Ecco il testo, liberamente tratto dall’Ethica more geometrico demonstrata di Baruch Spinoza che viene cantato dalla voce di mezzo soprano:

 

The Mind, human Mind, cannot be [Rea-] absolutely destroyed, but there remains [-son] something that is eternal, the God, Nature, the Fire.

There’s no freedom, all is necessary [con-] [-nection]. Remains Reason eternal. No cannot be destroyed the Fire.

 

Il testo dice per mezzo di parole alcuni dei significati filosofici connessi all’opera, e identifica la Ragione spinoziana con il Fuoco, simbolo eracliteo dello scorrere e trasformarsi del mondo.

Alcune parole del testo (quelle tra parentesi quadra) sono trattate con procedimenti musicali tipici del contrappunto fiammingo e della dodecafonia (si pensi a Il canto sospeso di Nono): una stessa parola, “Reason”, è spezzata nelle due sillabe che vengono cantate separatamente, mescolate all’interno del testo, a significare che la Ragione è nascosta nella realtà e non manifestamente dichiarata, la Ragione che è “connection”, connessione, necessità implacabile, termine ripreso dalla proposizione VII della seconda parte dell’Ethica di Spinoza, dove il costruttore di lenti afferma che “l’ordine e la connessione delle idee è uguale all’ordine e alla connessione delle cose”.

Il trattamento del testo e la logica della melodia cantata possono essere meglio compresi osservando, nelle pagine seguenti, lo spartito della voce, da me realizzato per permettere l’esecuzione dal vivo, in forma di concerto, della melodia vocale, accompagnata dalle quattro tracce elettroniche opportunamente diffuse da casse audio. La coordinazione tra l’audio diffuso elettronicamente e la voce è resa possibile dall’uso di un metronomo udibile in cuffia soltanto dal mezzo soprano.

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La seconda forma musicale che propongo è Acqua 21, un brano della durata, come The Mind, di circa dieci minuti.

La struttura è in quattro parti:

 

1)     da 0’:00’’ a 4’:00’’

2)   da 4’:00’’ a 6’:17’’

3)    da 6’:17’’ a 7’:39’’

4)   da 7’:39’’ alla fine.

 

Nella prima sezione il pianoforte (strumento che può anche eseguire dal vivo la propria parte) espone la formula su cui si basa il pezzo, uno schema ritmico di 21 tremoli, molto più complesso di quello su cui è costruito The Mind, come si può vedere nelle pagine seguenti, dove è riportato lo spartito del pianoforte. La formula termina a battuta 16, con il tremolo di do eseguito dalla mano destra. Il mi bemolle alla mano sinistra, nella stessa battuta, è l’artificio retorico che da inizio ad uno sviluppo della formula (trattata come fosse un tema) simile, come costruzione logica, a quello della forma sonata tardo-romantica.

I ventuno tremoli che costituiscono la formula scandiscono il trascorrere del tempo in quarantadue accenti: ventuno corrispondono all’attacco (in pianissimo eccetto il primo in mezzo forte) di ogni tremolo, mentre i restanti ventuno corrispondono alle accentazioni (indicate con f ) degli stessi tremoli.

In tutto il brano i quarantadue accenti e il ritmo complesso e di difficile memorizzazione (e quindi di difficile percezione cosciente) che essi formano, sono utilizzati come schema all’interno del quale vengono collocati gli eventi sonori del pezzo. La formula nelle parti del brano successive alla prima verrà velocizzata, e cambierà quindi d’aspetto tanto da essere resa un poco più facilmente percepibile dall’orecchio, ma le proporzioni della scansione temporale creata dal ritmo  dei ventuno tremoli resteranno inalterate. La formula in Acqua 21 non è altro che un ritmo di quarantadue accenti che viene accelerato o rallentato.

La Razionalità della formula, il rigore della necessità che regge il mondo non è percepibile dalle orecchie umane, non può essere vista, udita o toccata direttamente perché i sensi dell’uomo e il suo cervello sono troppo limitati e piccoli (intendo fisicamente limitati), e tutto ciò nonostante sia la stessa Razionalità a fondare e  formare il corpo umano e il mondo.

Tutti gli eventi sonori di Acqua 21 che non rispondono ad una logica esplicitamente melodica o di sviluppo (nel senso tardo-romantico del termine) sono ordinati (anche se impercettibilmente) secondo lo schema rigorosissimo della formula fondamentale.

 

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L’ingresso del suono di un violino a 4’:17’’ è il seme del mondo umano, il seme dell’individualità, dell’io. Tutta la seconda parte del pezzo è una nascita, un brulicare come d’insetti e generazione dall’acqua, dalla pioggia. Il generare è tentativo, incertezza, ripetizione, lotta che sfocia nella terza parte di Acqua 21, luogo in cui l’individuo-melodia intona sul violino un canto che è forse un canto estremo, un canto che ordina solo un frammento del tempo, quasi sorpreso e sospeso dall’illusione della coscienza, tra abissi di incomprensibilità, troppo complessi per le umane capacità di analisi.

Nella quarta parte del pezzo ritorna la lotta generativa della formula iniziale, che viene esposta di nuovo – quasi in segreto – da un gruppo di tamburi appena percettibili e confusi tra il brulicare (inflessibilmente ordinatissimo e necessario, vitale) di suoni e frammenti melodici simili a batteri o primitive forme di vita, simili a particelle fondamentali o animali.

Così si conclude il pezzo, senza una conclusione, perché la crescita della vita che diviene è eterna e inarrestabile, e la forma musicale non può che essere la mappa e la descrizione soltanto di un piccolo frammento dell’universo. Un frammento forse enorme per i sensi di alcuni piccoli uomini che vivono nel mio tempo preistorico, ma pur sempre una mappa, una arma da caccia che le mani dei grandi uomini possono impugnare per tentare di generare figli capaci di saltare da stella a stella, capaci di un mondo senza il freno dell’inerzia e della debolezza, lanciati nella corsa verso la Vita più alta.

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