Tu sei qui: Portale PIAZZA 3 CASA DELLO SCRIBA ‘U porcu assicutava ‘na criata e cincu jatti vulevunu ‘u pizzu: è veru? - Divagazione ziffiana sulla poesia di Mario Grasso

‘U porcu assicutava ‘na criata e cincu jatti vulevunu ‘u pizzu: è veru? - Divagazione ziffiana sulla poesia di Mario Grasso

V. S. Gaudio

 ‘U porcu c’assicutava ‘na criata


Tullio De Mauro: ”Ziff, palesemente, non ha letto Gramsci”. E’ vero?

V.S. Gaudio: ”Grasso, probabilmente, non ha letto Ziff”. E’ vero?

Mario Grasso: ”Gaudio, evidentemente, non legge ‘La Sicilia’”. E’ veru?





1.     Sapìti cchi successi a la Licata

‘U porcu assicutava ‘na criata

c’aveva ancora lordi li piatti

e cincu jatti ‘nta ‘n malu furrìu

ca vulevunu ‘u pizzu,

amminazzannu:

serva fitusa, dannìnni ‘na parti,

jettini ‘a rristatura d’a pignata,

bbrutta criata;

cu stava sodu-ggiubbu era lu porcu

cci jeva appressu ‘n cursa rrastiannu

pinzannu ‘i miritari occa cunortu.[i]

 

 

Così diceva Mario Grasso. E’ vero?

Voglio raccontarvi un’altra storia (si chiama “koan”).

E ve la racconta Paul Ziff:

“Un monaco domandò a Fuketsu: ‘Senza parlare, senza silenzio, come puoi esprimere la verità?’. Fuketsu osservò: ‘Ricordo la primavera nella Cina del sud. Gli uccelli cantano tra molti fiori’. C’è un commento del maestro Zen Mumon su questo koan. Mumon dice: ‘Fuketsu aveva spesso delle illuminazioni Zen. Ogni volta che ne aveva la possibilità, le esprimeva. Ma questa volta non riuscì a farlo e si limitò a citare un’antica poesia cinese. Non preoccupatevi dello Zen di Fuketsu. Se volete esprimere la verità, fate a meno delle vostre parole, fate a meno del vostro silenzio e parlatemi del vostro Zen”[ii].

 

 

2. E a proposito di Zen e del silenzio, questa ve la racconto io:

“Tant parént ‘i nonna mij facivënë ‘a meditazzijonë senz ‘ca sapivënë chigghjerëdë uzzèn.

Navõt trij i quist anë fatt n’accòrd c’avinnastà tre jurn e trennòt sensadiç ‘na parolë. ’U prîm jurn ‘anëstâtë citt tutt’ettré. ’A meditazzijonë ãvë cumïnciãt bbùnë.

Ma, quannascìs ‘anòtt anësintùtë abbajadë u canë eggùnë onzà controllatë e addìtt ‘annasèrv: ’Faç stà cìt quillu cazz’i canë!’.

U secònd discïpulë, com’a sïntutë parlãd u primë, s’a märavigliãtë: ‘Onnaverëmë diç ‘na parolë e ttunë dicisë i parolë bbrùtt!’

‘Si’tisë duj strùnz. Appïcchì avitïsë parlatë?’, addìtt ‘u terz.

‘Mappïcchì quillu canë ‘icàz bbajavïdë’, arrispòst nonnamij”[iii].

Così diceva V.S. Gaudio; o la nonna di V.S. Gaudio? Perché avete parlato?

“Ma perché quel cane del cazzo ha abbaiato”, ha risposto mia nonna[iv].

E’ un’affermazione vera?

“Fare un’affermazione è compiere un certo atto del parlare. Così, noi pronunciamo una certa espressione nel modo appropriato e nelle circostanze adatte. Recitare una poesia e fare un’affermazione non sono la stessa cosa”[v].

E’ vera l’affermazione “’U porcu assicutava ‘na criata”?

E’ vera l’affermazione “Mappïcchì quillu canë ‘icàz bbajavïdë”?

Grasso diceva: “’U porcu assicutava ‘na criata c’aveva ancora lordi li piatti e cincu jatti”, ma non faceva un’affermazione: scriveva una poesia.

“Cerca di fare star zitto quel cane del cazzo!” lo dice un parente di mia nonna alla serva, alla criata, ed è un ordine[vi].

Ora, io non vi ho dato un ordine, né è stato a darvelo quel parente di mia nonna; vi ho dato l’esempio di un ordine.

L’ordine “Cerca di far star zitto quel cane del cazzo!” sarebbe un ordine sciocco anche se non ne consegue che io abbia fatto qui qualcosa di sciocco.

“Dare l’esempio di un ordine e scrivere una poesia non sono cose molto simili; tuttavia, hanno questo in comune: dare l’esempio di un ordine non è dare un ordine, e scrivere una poesia non è fare un’affermazione”[vii].

 

 

3. La parola affermazione ci fa preoccupare? Se io dico “’U porcu assicutava ‘na criata”, faccio un’affermazione? O se dico che ne ho abbastanza del dialetto siciliano orientale a scroscio di lava, faccio un’affermazione? Anche se, come afferma Maria Corti, pare che sia Grasso a ritenere che “nel cuore di ogni siciliano vi sia scroscio di lava”[viii].

E’ Grasso che fa l’affermazione?

Grasso dice che ’u porcu assicutava ‘na criata; è vero quello che dice?

Le parole “’U porcu assicutava ‘na criata c’aveva ancora lordi li piatti e cincu jatti” si trovano nella poesia Criata di Mario Grasso: ciò non significa che Grasso abbia detto che ’u porcu assicutava ‘na criata.

Io dico che non è vero che non vale la pena leggere Ruffato, e ora è vero che ho detto non vale la pena leggere Ruffato, ma non è vero che abbia detto non vale la pena leggere Ruffato: ho detto invece il contrario.

 

 

4. Che cosa dice Grasso?

Unu dici “ ‘na vota “ e bbuffunìa,

l’amuri è sempri ‘u stissu:

si misura

tuttu l’amuri ca sentu ppi tia?

Amuri è cumpagnia

sanarisi ccu l’occhi li firìti

l’amuri è ‘na putìa

ca s’apri d’intra

e teni ‘u bbeni ‘i Diu,

cc’u amuri ‘i cori non si bbuffunìa.[ix]

 

Dice davvero Grasso che l’amore è una bottega che si apre dal di dentro? E’ lui che lo dice? E’ importante sapere chi stia parlando? O importa solo se qualcuno nella poesia abbia detto o no che l’amore è sempre uguale: si misura tutto l’amore che ho per te? “Il senso di ciò che si dice dipende da chi lo dice e in quali circostanze e perché; questa generalmente è la norma; perché quindi non dovrebbe valere in poesia?”[x]

 

 

5. Perché Mario Grasso dice che “ ‘U porcu assicutava ‘na criata” o che “l’amuri è ‘na putìa ca s’apri d’intra e teni ‘u bbeni ‘i Diu”? E perché lo dice in dialetto?

C’è un porco che inseguiva la domestica e cinque gatti in un brutto giro che volevano il pizzo dalla serva fitusa.

E’ vero allora che la serva fitusa deve dare una parte, buttar loro ‘a rristatura d’a pignata?

C’è una domanda:

perché la serva fitusa dovrebbe dare una parte ai cinque gatti e al porco?

Ce n’è un’altra, di domanda:

E’ vero che il porco che sta zitto zitto vuole anche lui la parte?

Si ipotizza dunque che i cinque gatti vogliano la rristatura d’a pignata. Ed è in risposta a questa ipotesi che si dice che ‘u porcu stava sodu-ggiubbu.

Se dico semplicemente “cincu jatti ‘nta malu furrìu ca vulevunu ‘u pizzu, ‘na parti” può darsi che io stia parlando del pizzo, della tangente; non vi è nessun altro significato implicito.

Ma se “cu stava sodu-ggiubbu era lu porcu” che correva dietro alla domestica fitusa ritenendo di meritare qualche conforto, allora la cosa è diversa: in questo caso, infatti, è implicito che l’”occa cunortu” del porco non è il pizzo ma è appunto il cunortu.

 

 

6. Si tratta di un gioco di parole? Senza dubbio è difficile forzare le parole di Grasso per sostenere che nella Criata si dica proprio questo o quello. Anche perché “spesso Grasso si mette a riflettere linguisticamente, a tentare etimologie, a dare varianti lessicali, a produrre accostamenti semantici; insomma si diverte”[xi]. Nonostante ciò, prima o poi si esaurisce l’analisi e si può definire che cosa vi sia detto, per poi domandare: è vero?

E’ vero che cosa?

Possiamo semplificare le cose supponendo che tutto il Vocabolario Siciliano consista soltanto dei 12 versi della Criata: Mario Grasso avrebbe anche potuto scrivere un componimento di questi soli dodici versi. E il nostro problema è “verità e poesia dialettale”, non questo o quel componimento poetico particolare. Possiamo dunque supporre che Grasso abbia scritto solo i 12 versi della Criata: essi costituiscono l’intero libro di poesia. Dovrebbe allora risultare meno difficile definire che cosa vi è detto.

 

 

7. Grasso si comporta sempre, tuttavia, in modo ambiguo. Non solo perché ha a cuore “ da un lato il campo semantico della natura con le sue leggi eterne, della saggezza popolare coi suoi proverbi o dei comportamenti sociali, o della vita contadina”; “d’altro lato usi metaforici di cose e fenomeni naturali”[xii]; o per lo spirito ludico, gaudioso, che ha tutto il pondus dovuto alla stessa carica fonica del materiale lessicale e che perciò è speculare alla costituzione implosiva, meditativa, dello Zen.

Negli altri versi si ipotizza che l’amore è una bottega che si apre dal di dentro e vi è depositato tutto il bene di Dio. E che, per questo, con l’amore del cuore non si scherza.

E’ questa la risposta? Perché dovresti fare questo o quello, non scherzare con l’amore. Perché l’amore è una bottega, dove c’è il ben di Dio.

Ma lo è davvero?

Uno dice “una volta” e scherza, l’amore è sempre uguale: si misura tutto l’amore che nutro per te? L’amore è compagnia, sanare le ferite con gli occhi, l’amore è una bottega, un posto di ristoro, che si apre dal di dentro e tiene il ben di Dio.

Ma chi dice “una volta”? Mario Grasso? Chi bbuffunìa? La nonna di V.S. Gaudio[xiii]? Che aveva spesso delle illuminazioni Zen, come il maestro Mumon di cui narra Ziff, e ogni volta che ne aveva le possibilità, le esprimeva. Ma quella volta del cane non riuscì a farlo citando un’antica poesia cinese o del Khoriezm, fece semplicemente a meno del suo silenzio: “Se volete esprimere la verità, non preoccupatevi dello Zen di Fuketsu; fate a meno del vostro silenzio e parlate del vostro Zen”[xiv].

Mia nonna in una notte di luna ad agosto stava portando i fichi d’India in un vecchio secchio quando il fondo del secchio all’improvviso si ruppe e mia nonna in quel momento fu liberata. Per ricordare l’evento, scrisse questa poesia:

Quannu u funn du sicchj s’a staccàtë

I fichinijàni anë cadutë asupë ‘upèd mij.

On cinnisù cchiù fichinijàni ‘ndu sicchj

Ojmmênë quant spinë and’u pedë mij![xv]

 

E’ vero quel che dice la nonna di V.S. Gaudio?

 

 

8. Leggo un haiku a un bambino e dico:

 

Cennu vìnt for’oràrijë

U Mastr du Spiritë màzzëchijdë apìpp

U timp volëdë.[xvi]

 

Il bambino mi chiede: “C’era davvero il vento nella controra?” e io dico “Sì”. Oppure: “No, è soltanto un haiku”.

Se dico a una donna: “l’amuri è sempri ‘u stissu: si misura tuttu l’amuri ca sentu ppi tia?”[xvii]

E lei mi dice: “Eccoti il metro”, allora è stupida?

Oppure, può darsi che lo stupido sia io e che lei sia una vera putìa ca s’apri d’intra e teni u bbeni ‘i Diu, e pure il metro, perché con l’amore del cuore non si scherza.

Esistono vari modi di guardare le cose, e uno è questo di chiedere: “E’ vero?” mentre si guarda. Se guardo un secchio senza fondo e mi chiedo “Ci sono davvero i fichi d’India?”, guardo il secchio in un dato modo. Se prendo il secchio per riempirlo d’acqua, e poi vi chiedo “C’erano davvero i fichi d’India?”; che devo rispondere? “Tuttu si po’ tirari di ‘nt’u mari?”[xviii]; “Masimamenti ‘u quatu è ‘na rricchizza ppi cu ha tirari l’acqua d’a jsterna ma po’ essiri chinu di munnizza, di çiuri, rrizz’i mari o di nannatu e si non scangiu porta e purticatu si mùngiunu li vacchi d’intra ‘n quatu”[xix], un po’ come faceva Faunia Farley in “The Humain Stain” di Philip Roth[xx]?

 

 

9. “A differenza di altri artisti dialettali Grasso non si serve del dialetto come strada nuova e diversa per un modo di sentire che in passato si sarebbe espresso in lingua. No, la sua è un’esperienza di altro tipo: egli si è tuffato nel dialetto perché ha voluto così tuffarsi nel mondo locale, come facevano i dialettali del passato”[xxi]: la sua poesia dialettale è connessa al Dasein, perciò il Codice è Ristretto, a differenza della poesia dialettale non connessa al Dasein in cui il Codice è Elaborato; tende ad usare la Macrostruttura narrativa con le 5 funzioni di Isenberg; è l’identità di pensiero che narra, comunica e descrive con i tempi della realtà: imperfetto, passato e passato prossimo; usa il linguaggio di crescita e non il linguaggio scritto dialettale; l’immagine acustica involve il Concetto Identificante: nella poesia dialettale diacronica, se non si conosce il Concetto Identificante, l’Immagine Acustica va prima specchiata nel Concetto Identificato; la Polisemia, per gli aspetti sincronici relativi all’uso corrente, contestuale e situazionale del dialetto, non è lieve ma ha una particolarità tutta connessa alla Pregnanza fonologica, lo scroscio di lava, del dialetto in uso.

Che cosa vi sto dicendo?

Che “la poesia dialettale, che io intendo connessa al Dasein del poeta con un Codice Ristretto sempre in uso, sembra che si strutturi come una novella in versi: ballata moderna o romanza, che narra o documenta vicende patetico-eroiche ma con un contenuto eminentemente morale (…). Novella in versi che è ballata moderna ma che è anche cantica: in essa la funzione discorsiva pone una concatenazione cronologica; mentre la funzione documentaria toglie schiuma alla ridondanza semantica”[xxii].

Se confrontiamo

‘A puppa d’ogni scarpa fa pizzottu

mancu fussi ‘n canottu,

sanu o cusùtu ‘ncasa la pidàta

pp’a caminata.

Senza pizzottu ‘u nnomu fa tappina,

cosa fina, di casa,

pizzottu po’ a Palermu è “parrucchina”,

fimminaru, cc’u zzoccula fa paru

‘a tappinara, ‘a “zzoccula”,

‘a tròccula sunata ppi campana.

Pizzottu senza fodira accustana

‘u carcagnu ‘ncasatu ‘i cu camina.[xxiii]

 

con

Rassego de parole su parole la spompa

in hagg pelegrino ai tropici

sbrissando co metri morali sociali

e cultura, robe straordinarie

l’omo ramai malspartisse

doni e beni de natura.

La più pura democrassia se smola

sensa calibrio, el mondo

ga bisogno de dignità

e de onestà, pur su relogi

atomici che su un milion de ani

scantìna squasi un secondo e sfida

l’eternità. Ela nata portante

sensa data e rihla cumenica

de carità, polena ai viandanti

el rinovo urbi et orbi in logo

verto musalla de preghiera digiuno

e garbo pianto, po sola

parola insula a Djerba.[xxiv]

 

qui, al di fuori del loro contesto, come si leggono?

“Intendo forse dire se li leggiamo con sentimento, a voce alta o sottovoce? No, non è questo; il punto è: cosa fate quando li leggete? Guardo la pagina stampata: leggo da sinistra a destra. Ecco che cosa faccio. Ma non è tutto quello che io, o chiunque altro, facciamo quando leggiamo qualcosa. Chiunque, infatti, può per lo meno rivolgere l’attenzione a quanto sta leggendo o no, può farlo in modi diversi, o può rivolgersi a cose diverse”[xxv].

Leggendo i versi di Ruffato,

vedete che il poeta non sta facendo una novella in versi, né una romanza, né una cantica e perciò non c’è la macrostruttura narrativa di Isenberg con le sue costrizioni logiche e pragmatiche;

vedete che il testo non è una combinazione di sequenze perché non ha predicati narrativi, proposizioni che combinino il paradigma con un attante;

vedete che il testo combina la situazione del poeta con la morale della sua biografia: è un testo che è sempre specchio della sua metafora che conclude la situazione iniziale della sua biografia.

Leggendo i versi di Grasso,

vedete che c’è una correlazione tra la struttura della poesia e quella del racconto; percepite una sorta di macrostruttura della narrazione che può contenere, per motore, almeno tre delle cinque funzioni di Isenberg: la situazione iniziale, la complicazione, l’azione o la valutazione, la risoluzione, la morale o la conclusione;

vedete che la sua funzione discorsiva pone una concatenazione cronologica e a volte riuscite a scorgere anche la funzione documentaria che toglie schiuma, lava, alla ridondanza semantica;

vedete che la circolarità semica è attuata, come è effettiva l’interazione tra l’io che narra e l’altro di cui si narra[xxvi].

Invece, leggendo i versi di Franco Loi (cfr. Stròlegh, Einaudi, Torino 1975),

vedete che il poeta sta facendo una novella in versi, una romanza, ma è la romanza-metafora che specchia, con almeno tre funzioni di Isenberg, una situazione iniziale che è sempre la sua biografia; così, pur non avendo come riferimento la macrostruttura narrativa di Isenberg, combina il paradigma con l’attante, che è sempre l’io di chi narra, rammenta. Un po’ così la tira pure, la macrostruttura narrativa, Raffaello Baldini (cfr. La nàiva, Einaudi, Torino 1982).

Leggendo i versi di Tonino Guerra (specialmente se quelli di I bu, Rizzoli, Milano 1972), anche qui vedete che c’è una stretta correlazione tra la struttura della poesia e quella del racconto; la macrostruttura narrativa contiene sempre almeno tre delle cinque funzioni di Isenberg e la funzione discorsiva ha una concatenazione monotematica che smeriglia la ridondanza semantica; e vedete, infine, che la circolarità semica è speculare all’interazione tra l’io che narra e l’altro di cui si narra.

Sivio e’ matt

 

Quand che parlèva,

e’ parlèva ad scatt,

tott un brandèll

da in chèva fina i pi,

se brètt cun la visira arvólta indri,

che l’era avstéid da chéursa

Sivio e’ matt.[xxvii]

 

La domanda di Ziff “Come si legge una poesia?” non ha, è vero, una sola risposta. Non esiste un unico modo di leggere una poesia. Figuriamoci una poesia dialettale. Che parla tre linguaggi. Chiunque legga una poesia dialettale come se fosse una poesia in lingua nazionale è tanto sciocco quanto chi tracanna Marsala Vergine Soleras e sorseggia Coca Cola.

Grasso (c’è un sentore di sommacco nel suo verso asciutto dal nerbo sodo, brilla il suo verso-vitigno Grillo, Inzolìa e Catarratto) non è Ruffato, ma non scoprirete neppure quello che merita di essere scoperto se leggerete Vocabolario Siciliano come se fosse “La Sicilia”.

 

 

10. E’ inutile dire soltanto che normalmente non si domanda “E’ vero?” quando si legge una poesia, mentre lo si domanda quando si legge un articolo di giornale.

Ma quando si legge una poesia di Mario Grasso ci si può domandare “E’ vero?” come ce lo si domanda leggendo un articolo su “La Sicilia” di Catania?

Cioè:

Mario Grasso: Sapìti cchi successi a la Licata?

‘U porcu assicutava ‘na criata c’aveva ancora lordi li piatti

e cincu jatti ‘nta n’ malu furrìu ca vulevunu ‘u pizzu

La Sicilia: E’ successo a Licata

Un porco insegue una domestica

che aveva ancora i piatti sporchi

La tangente a 5 Gatti

Il “Cunortu” al Maiale!

 

Se stessimo leggendo su “La Sicilia” la corsa del Maiale inseguitore patagonistico alla Baudrillard e vi si dicesse “cu stava sodu-ggiubbu era lu porcu, cci jeva appressu ‘n cursa rrastiannu pinzannu ‘i miritari occa cunortu”, non resterei sbalordito della domanda “E’ vero?”.

Ma se stiamo leggendo Mario Grasso e una persona adulta, indicando i versi citati, chiede “E’ vero?”, allora penso che quella persona sia stupida. O non ci crede?

Insomma, non è sufficiente dire che non si può rispondere alla domanda, perché questo serve soltanto a farla sembrare una domanda difficile, anche perché non è una domanda: è una trappola della poesia dialettale[xxviii]. Ed è tale sia che la si ponga a proposito dei versi di Grasso, sia che la si ponga a proposito dello Zen di mia nonna, sia che la si ponga a proposito della poesia dialettale diacronica di Ruffato, in cui, mancando la macrostruttura narrativa, non c’è ballata moderna o cantica che venga a riferirvi di un porco e di una serva, o di 5 gatti e una nonna che fa lo Zen, né di un bbrigghiu o di un pizzottu[xxix], e quindi, nel silenzio dei versi, quale verità può esprimere, se non fa a meno delle parole anche se sta parlando dello Zen de la mama?

 

 

11. Dico a qualcuno: “Se devi leggere la poesia dialettale, il solo modo intelligente di leggerla è quello di leggerla con occhio critico”. Che è anche il solo modo di leggere i giornali. Voglio quindi che, mentre legge Mario Grasso, egli si chieda con una certa frequenza “E’ vero?”. E’ uno dei modi di leggere “La Sicilia”, il “Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Il Gazzettino”, “il manifesto”, libri di storia, “Novella 2000” e “Chi”[xxx]. Non credo però che abbia molto senso nella lettura della poesia. Esistono modi diversi per leggere componimenti poetici diversi, ma nessuno di questi implica che ci si domandi “E’ vero?”. Per lo meno, non credo che un componimento poetico comporti mai una domanda del genere. Tuttavia, non posso provarlo: esistono troppi modi diversi di fare e quindi di leggere la poesia”[xxxi]. Ma se un lettore catalano di Mario Grasso stesse leggendo su “el Periódico”: “Una puta diu que va contactar amb la màfia perquè com a professora d’institut només guanyava 70 euros al mes”, potrebbe ipotizzare che la “puta” è la “criata” e i cinque gatti sono la “màfia”?

E il “porcu” qui és? E soprattutto “la puta va dir la veritat”? Que treballa de puta i que guanyaria molts diners? E perché adesso è a Barcelona e fa la puta, che ci faceva a la Licata, la “bbuttana” o la “criata”? La “badante”?

La poesia dialettale connessa al Dasein del poeta non ha procedimenti metaforici, un po’ come “el Periódico” che parla catalano, cioè scrive catalano, è scritto in catalano, non va da un termine di partenza per arrivare a quello di arrivo con la proprietà comune che permette la metafora: a) attuando una traduzione più o meno letterale; b) ridefinendo l’oggetto di partenza. Diciamo che usa il “linguaggio di crescita”, per cui ha un uso corrente, contestuale e situazionale del linguaggio che rende più vera, o più verosimile, la referenza al Dasein.

Perciò, “el Periódico” è simile alla poesia dialettale connessa al Dasein del Poeta? O, piuttosto, avendo il “codice ristretto” della lingua in uso, e non avendo particolari procedimenti metaforici, non è per niente poetico?

 

Encadenada a la cuneta

Svetlana parla de la mala vida a la cuneta

la seva pell blanca és un mar de pigues

i té els pits en carn viva per aquest sol

mediterrani que ho abrasa tot

la puta diu que Espanya ès el prostíbul d’Europa

sembla saber què és adequat per a ella i sobretot

per als seus comptes

atleta olímpica del sexe que diu

“Ho he fet per motius financers,

és molt difícil guanyar aquests diners

en el món real”.

 

¿Qui va dir? E’ poetico? E’ vero? E’ iperreale? O è correale?

 

 

 

12. ‘U porcu assicutava ‘na criata

c’aveva ancora lordi li piatti

e cincu jatti ‘nta ‘n malu furrìu

ca vulevunu ‘u pizzu,

amminazzannu:

serva fitusa, dannìnni ‘na parti,

jettini ‘a rristatura d’a pignata,

brutta criata

Così diceva Mario Grasso. E’ vero?

Nella filosofia il verum, dice Ziff. E aggiunge: “ma in vino veritas: nella poesia, come nel vino, c’è della verità e in modo molto simile”[xxxii].

Dico a qualcuno:

“C’è della verità nella poesia Criata di Grasso”; costui, metti che sia Cucchi o uno di quei custodi di antologie dell’industria editoriale che è come l’altro di Watzlawick che compie il suo gesto nell’ambito della logica formale, che postula che ogni affermazione può essere vera o falsa, e che non esiste una terza soluzione (tertium non datur), allora esamina attentamente i versi alla ricerca di una affermazione vera. E se gli dicessi “In vino veritas” vuoterebbe una bottiglia di vino aspettando che ne stilli la verità[xxxiii].

Il poeta è invece quell’enfant terrible, quel classico bugiardo che disse “Io mento”. Se davvero mentiva, allora diceva la verità, e quindi mentiva quando diceva “Io mento”. Cosa ne pensate voi, oggi, millenni più tardi, dell’affermazione “Il Custode dell’Antologia inseguendo la serva non voleva ‘u cunortu ma ‘u pizzu”. E’ vera o falsa?

Se dite “E’ vero” a proposito dei componimenti poetici di Mario Grasso, il soggetto di “E’ vero” è simile al soggetto nell’espressione “Sta inseguendo”. Che cosa è vero, infatti?

“Il componimento poetico è vero”; sarebbe un’affermazione strana se riferita alla Criata e “Questo è vero” sarebbe un’affermazione non pertinente se riferita a un verso qualunque, anche di Ruffato o di Calzavara (che curva il presente con procedure allitterative tanto che nessuna distanza misura il segno e la pregnanza dell’immagine: cfr. Analfabeto, Società di Poesia, Milano 1979), o di Loi, Baldini, Guerra, preso isolatamente e fuori dal suo contesto.

Non si deve dire pertanto “E’ vero”, ma “C’è (della) verità in essa”.

‘A ricotta s’a mangia ‘a picciotta

‘a lacciata s’a mangia ‘a criata

‘u seru è d’u cani.[xxxiv]

E mia nonna? Ha detto la verità? C’era della verità in essa?

Nonnamij jedë “la madri di lu NO, è nanna e nica,

nana e ninnilìa, di notti vigghia, ‘u jornu annarbulìa

e avanti di ‘na G i mo nannu subbitu cedi,

fimmina quantu all’autri, camina

si vesti di cumeta e spanni d’intra i nuci e d’a farina

e poi canta di vucca e di campana

ma non si po’ diri d’unn’è ca sona

‘a testa ti la stipa e ti la ‘ntrona

è figghia di grandissima bbuttana

sta nanna e nica ca comincia da ‘na P

muta comu ‘na petra

è zzoccula, parrucchina

‘u nnomu fa pitrona?[xxxv]

Tu cchi ne dici? E’ veru?



NOTE

 

[i] CRIATA: in: Mario Grasso,Vocabolario Siciliano, Prova d’Autore, Catania 1989: p. 76: “DOMESTICA/ Sapete cos’è accaduto a Licata?/ Il maiale inseguiva una domestica/ che aveva ancora i piatti sporchi/ e cinque gatti in un brutto giro/ che volevano la tangente,/ minacciando:/ serva fetente, daccene una parte,/ buttaci il restume della pentola,/ brutta serva;/ chi stava zitto-zitto era il porco/ le correva dietro fiutando/ ritenendo di meritare qualche conforto”.

[ii] Paul Ziff, “VERITA’ E POESIA”, in: P.Z., Itinerari filosofici e linguistici [Philosophical Turnings. Essays in Conceptual Appreciation, 1966], Introduzione di Tullio De Mauro, trad. it. Laterza, Bari 1969: p. 79.

[iii] V.S. Gaudio, Uzzén ‘i nonnamijë, Storie Zen in dialetto del delta del Saraceno [Alto Jonio cosentino], con un compendio fonomorfologico a cura di Alessandro Gaudio e Marisa Heine, © 1999: “La lingua-zen parlata nel delta del Saraceno non ha l’enfasi e l’accentuata sonorità del Napoletano, la cui pronuncia piena ed esplicita è, qui, soggetta a metafonesi anche interne alla parola, come se il fonema fosse consegnato, più che al suono indistinto della finale /ë/ alla maniera francese, a una sospensione stretta, una sorta di espressione introversa che crea una gradazione semantica più insinuante, non allusiva, più leggera, come se la piena aderenza fonematica che ha il Napoletano additasse una provenienza, una Herkunft, da tenera nascosta”. Questa è la traduzione della 2a storia Zen: “Molti parenti di mia nonna solevano studiare meditazione anche senza sapere cosa fosse lo Zen. Una volta tre di loro si riproposero di osservare 3 giorni e 3 notti di silenzio. Il primo giorno rimasero zitti tutti e tre. La loro meditazione era cominciata bene. Ma, scesa la notte, sentirono abbaiare il cane e uno non riuscì a controllarsi e ordinò a una serva: ‘Cerca di fare star zitto quel cane del cazzo!’. Il secondo discepolo si stupì nel sentir parlare il primo: ‘non dovremmo dire neanche una parola, figuriamoci le parolacce!’. ‘Siete due stronzi. Perché avete parlato?’ disse il terzo. ‘Ma perché quel cane del cazzo ha abbaiato’ gli rispose mia nonna”.

[iv] “Mia nonna era la grande monaca del deserto del Saraceno che discendeva dai grandi maestri dell’antica arte dell’irrigazione”: V.S. Gaudio, ibidem. E’ vero?

[v] Paul Ziff, trad. cit.: ivi.

[vi] Se il parente di mia nonna avesse ottenuto un punteggio più vicino a 17 nel cinotest di Vuesse Gaudio, Che tipo di padrone sei?, “Argos” n. 61, Motta Periodici, Milano novembre 1992, avendo senz’altro scelto la particolarità espressiva di un cane Besenji, che non abbaia mai ma emette uno strano suono a metà strada tra la risata e lo “jodler” tirolese, non avrebbe dovuto impartire tale ordine sciocco e noi non avremmo dato l’esempio di un ordine. Tant’è che mia nonna non avrebbe potuto scrivere la storia Zen ‘U canë c’abbajidë ‘onpo’medità [Il cane che abbaia non può meditare]. Ma è vero che l’ordine di stare zitto impartito al cane in dialetto sia meno sciocco?

[vii] Paul Ziff. trad. cit.: ivi.

[viii] Maria Corti, Introduzione a: Mario Grasso, op. cit.: p. 8.

[ix] BBUFFUNIARI: in: Mario Grasso, op. cit.: p. 45: “SCHERZARE/ Uno dice “Una volta” e scherza,/ l’amore è sempre uguale:/ si misura/ tutto l’amore che nutro per te?/ Amore è compagnia/ sanare le ferite con gli occhi,/ l’amore è un posto di ristoro/ che si apre dal di dentro/ e vi è depositato tutto il ben di Dio,/ con l’amore del cuore non si scherza”.

[x] Paul Ziff, trad. cit.: ibidem, p. 81.

[xi] Maria Corti, loc. cit.: p. 7.

[xii] Ivi.

[xiii] “Mia nonna non era la figlia del pascià, quella Guldursun che si era innamorata del condottiero dei Calmucchi che assediavano la città di Gülistan (“Roseto”) e che, poi, fu dilaniata in mille pezzi per il suo tradimento”. V.S. Gaudio, Uzzén ‘i nonnamijë, cit. E’ vero? Cfr. anche: S.P. Tolstov, Il paese degli antichi canali, trad. it. dal tedesco Il Saggiatore, Milano 1961: pp. 14 e segg.

[xiv] Cfr. Paul Ziff, trad. cit.: p. 79.

[xv] V.S. Gaudio, Uzzén ‘i nonnamijë, cit.: “Quando il fondo del secchio si ruppe/ i fichi d’India caddero sul mio piede./ Non ce ne sono più fichi d’India nel secchio/ Ohimè quante spine nel mio piede!”.

[xvi] Ivi: “C’è un vento nella controra/ Il Maestro dello Spirito morde la pipa/ Il tempo vola”.

[xvii] Mario Grasso, op. cit.: p. 45.

[xviii] Mario Grasso, ibidem: da “T”: p. 259.

[xix] Cfr. Mario Grasso, ibidem: da “QUATU”: “SECCHIO/ Principalmente il secchio è una ricchezza/ per chi debba tirar su l’acqua della cisterna/ ma può essere pieno d’immondizie,/ di fiori, di ricci di mare o avannotti/e se non scambio porta per porticato/ si mungono le vacche/ dentro un secchio”: p. 196.

[xx] Cfr. Philip Roth, The Human Stain, © 2000; trad. it. La Macchia Umana, Einaudi, Torino 2001.

[xxi] Maria Corti, loc. cit.: p. 9.

[xxii] V.S. Gaudio, La poesia dialettale connessa al Dasein, in: V.S. Gaudio, La semantica gergale e razionale dell’idioletto corporeo e della poesia dialettale diacronica, in “Quaderni di Hebenon” n. 1, Ivrea 1999: p. 37.

[xxiii] PIZZOTTU: in: Mario Grasso, op. cit.: p. 186: “PIZZOTTO” (Parte posteriore della scarpa)/ La poppa d’ogni scarpa si chiama “pizzotto”,/ quasi fosse un canotto,/ intero o cucito chiude il piede/ per camminare./ Senza pizzotto si chiama ciabatta,/ cosa fine, per casa,/ a Palermo, poi il “pizzotto” viene chiamato “parrucchino”,/ donnaiolo, fa paio con “zoccola”/ la sgualdrina, passeggiatrice,/ la battola che suona al posto della campana./ “Pizzotto” senza fodero produce piaga/ sul calcagno costretto di chi cammina”.

[xxiv] VOSE SINGANA: in: Cesare Ruffato, Scribendi licentia, poesia in volgare padovano, Marsilio editori, Venezia 1999: p. 345: “VOCE GITANA. Strofinìo di parole su parole la affloscia/ in pellegrinaggio ai tropici/ scivolando con misure morali sociali/ e cultura, cose straordinarie/ l’uomo ormai fa cattiva spartizione/ di doni e beni della natura./ La più pura democrazia si allenta/ senza equilibri, il mondo/ ha bisogno di dignità/ e di onestà, sia pure su orologi/ atomici che in un milione d’anni/ fuorviano quasi di un secondo e sfidano/ l’eternità. Lei nata referente/ senza data e storia ecumenica/ di carità, indica ai viandanti/ il rinnovo urbis et orbis in luogo/ aperto di tutti quanti di preghiera digiuno/ e aspro pianto, poi solitaria/ piroettante isolana a Djerba”.

[xxv] Paul Ziff, trad. cit.: p. 83.

[xxvi] In altra sede, con un altro testo, come è stato fatto per la poesia dialettale diacronica (cfr. nota 22), sarà resa la verifica degli Indicatori Globali e dell’I Ching nella poesia dialettale connessa al Dasein di Grasso (che, seppur in modo del tutto informale, si può anticipare dicendo che l’esagramma è il 31.Hienn, quello in cui il trigramma del Lago è su quello del Monte, l’esagramma della mutua attrazione, corrispondenza che,per quanto diremo alla nota successiva per l’”irredentismo oggettuale” che è implicitamente connesso all’”attrattore strano”, lascia di stucco! Volete che vi si lasci stupefatti? La riga – o il “rigo”, trattandosi di Mario Grasso? – iniziale dell’esagramma Hienn è tutta nel basso e nella potenza dell’Heimlich dell’alluce; la riga sopra è la bocca: la mutua attrazione, ovvero lo stile grassiano, lo stile della mutua attrazione!); parimenti sarà analizzata, la poesia di Grasso [considerando anche la raccolta Crucchèri, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 2002], con la teoria delle preposizioni di Viggo Brøndal (1887-1942): nel testo sarà fornita la nostra tavola delle preposizioni del siciliano orientale dell’area siracusano-catanese secondo la teoria del linguista danese.

[xxvii] “SILVIO IL MATTO. Quando parlava,/ parlava di scatto,/ tutto un brandello/ da capo a piedi,/ e il berretto con la visiera voltata indietro,/ ch’era vestito da corsa/ Silvio il matto.”

[xxviii] Un’altra trappola della poesia dialettale, oltre questa ambigua e apparente univocità del tertium non datur, è quella del pedinamento stesso o inseguimento come doppia vita dell’altro, modalità baudrillardiana con cui non si dice: “L’altro esiste, l’ho incontrato”, ma bisogna dire: “L’altro esiste, l’ho seguito”. La domestica, che il porco inseguiva, proprio perché non viene incontrata non può essere troppo vera, troppo diretta, troppo indiscreta. Il porco, in effetti, non la conosce, né vuole conoscerla, la insegue segretamente e così la criata esiste. Esiste perché si esercita su di lei il “diritto fatale di inseguimento”. Questa virtù dell’Heimlich che sottentra nei personaggi della poesia di Mario Grasso, una sorta di fatalità indistruttibile dell’Altro, è come l’”irredentismo dell’oggetto”, l’”estraneità radicale”, l’”esotismo irriducibile”; ed è da qui che, in un altro testo, si potrà cogliere quella che Jean Baudrillard intende per “declinazione della volontà” e che, nella poesia dialettale di Mario Grasso, rende di una evidenza perfetta ciò che, visto da una prospettiva d’insieme, manca al mondo, al senso che non ha frammenti, linee spezzate, forme segrete dell’Altro.

Un’altra trappola ancora della poesia dialettale è questa del dettaglio, con la sua eccentricità e la contiguità frattale, drammatica come un’immagine fotografica, col suo silenzio e la sua immobilità. Provate a leggervi Pitturina [‘A pitturina di donna Ciccìna/ tagghia lu ventu e scinni/ a lu paisi/ ogni simana cala/ ppi li spisi/ma prima spunta idda,/ ’a pitturina.]: questa immagine fotografica che è un mondo frattale di cui non si dà equazione né sommatoria in nessun luogo, anche se donna Francesca è lì in quel luogo, vista nel dettaglio, colta di sorpresa, ogni simana cala a lu paisi, tagghia lu ventu, idda, ‘a pitturina di donna Ciccìna, immagine fotografica, rende conto dello stato del mondo in nostra assenza.

E’ apparenza donna Ciccìna che proviene da un altrove, dal suo proprio luogo, dal cuore della sua banalità, dal cuore della sua oggettualità; come ogni altro nella poesia dialettale di Mario Grasso fa irruzione da tutte le parti, con la delicatezza patafisica del suo senso che non vuole riflettersi, vuole essere colto direttamente, violentato lì per lì, illuminato nel dettaglio, oggetto stupefatto che capta l’obiettivo del poeta, è il bagliore didonico, questo bagliore di impotenza e di stupefazione che manca completamente alla mondanità della lingua, della poesia, nazionale. “C’è del fotografico solo in ciò che è violentato, sorpreso, svelato, rivelato suo malgrado, in ciò che non avrebbe mai dovuto essere rappresentato perché non ha immagine né coscienza di se stesso”, dice Baudrillard (La trasparenza del male, trad. it. Sugarco edizioni, Milano 1991: pp. 165-166):

‘A pitturina di donna Ciccìna

tagghia lu ventu e scinni

a lu paisi

ogni simana cala

ppi li spisi

ma prima spunta idda,

‘a pitturina.

Questa stessa rivelazione fotografica ce l’ha la dona Flor di Jorge Amado [“Guardatela…Che forme, che bellezza di donna! Uno schianto, e si vede che è soddisfatta. (…) La faccia ce l’ha seria, ma le anche-guardatele!-tutto un movimento: sembra perfino che qualcuno la stia toccando… (…) ah! Quella mania di Vadinho di accompagnarla per strada toccandole i seni e le natiche, svolazzandole attorno come se fosse la brezza del mattino. Di un mattino lavato di domenica, in cui passeggia dona Flor, lieta della sua vita, soddisfatta dei suoi due amori”: trad. it. Teadue, Milano 1997: p. 524], questo bagliore didonico che svela, fulminandolo, l’impotenza, l’immobilità, stupefatta del senso.

La pettorina di donna Francesca e il podice di dona Flor danno “chiarore alla passione e, allo stesso tempo, la documenta [no] fino al dettaglio con tutta la gratuità che l’immagine ricava dalla sua presa di posizione” (V.S. Gaudio, Sonia Braga, il culo di dona Flor e la sospensione del tempo, in: V.S. Gaudio, Oggetti d’amore, Scipioni b., Viterbo 1998): la grande esplosione figurativa da pitturina e do posterior “è come l’emotività compressa del sentimentale che, sotto la marea dell’affettività e dopo la costipazione delle eccitazioni, esplode in atti primari di incontenibile emotività” (V.S. Gaudio, ivi).

Questo fotografico è l’irriducibilità che proviene da un altro luogo, la precessione di una determinazione illeggibile nell’evidenza perfetta del linguaggio, deittico ma, illeggibile, segreto, di una devoluzione sottile, energia surrettizia sottratta, rubata, sedotta, radicalmente esotica.

[xxix] Bbrigghiu è “birillo”: cfr. Mario Grasso, op. cit.: p. 43; Pizzottu è “Pizzotto”: cfr. nota 23.

[xxx] Che dovrebbe in verità avere il sottotitolo “supplemento” di “Noi, il settimanale degli italiani”, titolo con cui il popolare settimanale berlusconiano del gossip, ai sensi dell’articolo 5 della legge 8.2.1948 n. 47, è registrato al Tribunale di Milano: n. 507 del 14.9.1992. E’ vero? E se è vero, “Chi” non esiste? Alla domanda ziffiana “Esiste ‘Chi’?” si può rispondere così: non abbiamo ragioni per supporne l’esistenza; abbiamo invece motivi eccellenti per credere che non esista alcun periodico simile, essendo, per la legge citata, provata la registrazione che al n. 507 del 14.9.1992 esista un periodico dal titolo “Noi, il settimanale degli italiani”. La legge in vigore, tuttavia, non è sufficiente a provare l’inesistenza di “Chi”; basta tutt’al più a stabilire che non esiste “Chi” come lo concepisce l’articolo 5 della legge 8.2.1948 n. 47. La domanda “Esiste ‘Chi’?” può essere quindi concepita in modo nuovo e, così concepita, può richiedere una nuova risposta.

Ed è pur vero che “il manifesto” pare che sia registrato come pubblicazione a carattere murale. La verità, in questo caso, non è sottaciuta, è nel titolo del quotidiano. In più, e questo è un pregio della distribuzione comunista, lo si trova anche in edicola, ancorché essa si trovi fuori le mura e il quotidiano non sia stato affisso al muro. Fosse stato “foglio volante”, e per questo non essendo soggetto alla normativa degli esemplari d’obbligo, avrebbe potuto permettersi l’inviato in Iraq? Ma “il manifesto”, essendo giornale murale, non essendo affisso quando è venduto in edicola, può essere considerato a tutti gli effetti un “foglio volante”? Se è vero che possa essere considerato un “foglio volante”, e se è vero che essendo anche un “manifesto” essendo murale, non avendo bisogno perciò di un direttore responsabile, avendolo che funzione avrebbe? E, soprattutto, nel leggerlo il lettore questo “manifesto” dovrà vieppiù con maggiore frequenza chiedersi “E’vero?”?

[xxxi] L’affermazione, che è di Ziff ma che è anche mia per una piccola aggiunta, è commutata da: Paul Ziff, trad. cit.: p. 85.

[xxxii] Paul Ziff, trad. cit.: p. 86. A tal proposito, il verum in filosofia e in vino veritas, mi è capitato di leggere, proprio quando stavo vagando in questa dissertazione, su “il manifesto” del 29 ottobre 2005, un annuncio che pubblicizzava due “vini comunisti”: il “Rossissimo Lenin” e il “Rosso Stalin”, ideati in quel di Reggio Emilia e in vendita in cartone da 12 bottiglie con “bellissimi manifesti in regalo”. “Rosso Stalin e Rossissimo Lenin i migliori Lambruschi dell’Unione Sovietica” parola di Vladimir Ilijc Uljanov “Lenin” “…e di Cuba” parola del comandante Fidel. E’ vero? O bisognerà vuotare l’intero cartone di 12 bottiglie per ognuno dei rossi affinché se ne stilli la verità?

Per l’ordine si potrà scrivere o telefonare al “Centro di Poesia [!] Cultura e Arte” del Circolo Arci di Montecavolo; ma l’ordine, per sembrare più vero o almeno meno sciocco, come si ipotizza alla nota 6, dovrà essere fatto in dialetto emiliano? O in russo? Oppure in spagnolo? Ma il tertium, che scaturisce del tutto spontaneamente dal dilemma, è nella svalutazione del pronome di prima persona comune a tutto il mondo gallo-italico, per cui invece di partire da una base latina ego dico “io dico”, si parte da una base rinforzata me ego dico”, che a Reggio è me a deg? Cioè in questa svalutazione dell’ego c’è questo vino doppio del compromesso? L’ideatore pensava di aver trovato una ipersoluzione, e, invece di in vino veritas, è caduto nella botte del suo io? Lo dice lui: “Me a deg”!

[xxxiii] Cfr. Paul Watzlawick, Tertium non datur, in: P.W., Di bene in peggio [Vom Schlechten des Guten oder Hekates Lösungen, München 1986], trad. it. Feltrinelli, Milano 1994.

[xxxiv] “La ricotta è per la più giovane/ la scotta è per la serva/ il siero è per il cane”: cfr. SERU: in: Mario Grasso, op. cit.: p. 235.

[xxxv] Cfr. “N”: in: Mario Grasso, ibidem: p. 159.

[Illustra la Divagazione ziffiana: Félicien Rops, Pornokrates 1878]

 

 

 

 

APPENDICE

EL REPORTATGE D’“el Periódico”

 

 

 El Periòdico

REPORTATGE

 ‘U porcu c’assicutava ‘na criata

 

Encadenado a la puta

‘U porcu c’assicutava ‘na criata

(com el que apareix a la fotografia)

 

 

 

Afirma:

“Em sento buido,

més infeliç que mai.

A mi ningù em van dir que

treballaria amb una puta a Barcelona”

 

Desvela

que la criata es invisible

par a les autoritats estatals

autonòmiques i locals.

¿Va dir la veritat?

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