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Namibia Ela Gibil

Anita T. Giuga

Il mio mercurio in cancro mi fa prossima alla scrittura. Il cancro è un
segno zodiacale amniotico, quindi acquatico, ma ancora di più affetto da una
malattia mortale: la memoria. Cammina di sghimbescio con un occhio strabico
gettato verso il serbatoio del ricordo. Mi sono sempre chiesta come sfuggire
alla necessità dell’accumulo dei fatti. Fatti per nulla oggettivi perché
sottoposti alla trama e all’ordito della mente, delle convenzioni della
mente, che si fondano su continuità e consuetudine. Isole di materia nella
brodaglia del caos. Inchiostro, liquidi, ricordi. Fatalità. Da qualche tempo
non faccio che addestrarmi alla gratitudine e al silenzio, un addestramento
militare con il magro esito di una grande confusione mentale. Principiamo
con le lamentazioni, che sono la personale liturgia che mi permette di
tallonare il presente, salmodiare il dolore è professione di fede. Bellezza
e oscurità, come luce e tenebre, come lode e lamento, sono il pane della
sopravvivenza e il verso di vetro che resiste quattromila anni alla realtà.
Trasformare la tenebra in luce, inaspettatamente, è il miracolo che si deve
compiere. Sto cercando un rimedio che porti la tristezza della mia anima, la
malattia mortale della mia anima, oltre il confine della solitudine. Mi
serve un sostegno robusto e silenzioso, un luogo d’ombra e di ristoro
permanente che consenta alla mia povera schiena di riposarsi, sperimentando
il mondo com’è nella sua varietà. Dentro di me abita una figura maligna che
mi è ostile e che vorrei alleare ai miei giorni migliori, all’orizzonte
soleggiato dei miei giorni migliori. Ma temo una rappresaglia feroce: Le
immagini corporee sono quelle del divoramento, della ferita,
dell’amputazione. La mente è scossa da una guerra intestina, in cui figure
interne si accusano reciprocamente in dialoghi dolorosi e cupi. Sono
risoluta a disarmare il persecutore, occupandomi di cauterizzare la melena
dell’ira. Ogni ora l’orologio batte l’una, le tredici meridiane. Il sole
verticale, l’ombra verticale che spiove. È una stranezza, una ripetizione
sepolcrale. Un inceppamento del futuro. Ogni ora mi auguro che i minuti
ricomincino a fluire nell’ordine che gli è proprio. Intanto cade una brocca
giù dal tavolo. È sempre l’una. Namibia Ela Gibil, mi chiamano così, di
padre siriano e madre ebrea d’Istraele. E questo quanto riassume tutte le
esperienze fisiche che ho appreso Tutte le fisiologie che mi sono state
trasmesse, tutti gli apprendimenti che mi sono stati inculcati. Tutte le
guerre di religione che stanno tra il Sole e Dio. Il sommario della serietà
vaginale. Non si possono indossare pantaloni e si debbono coprire le parti
belle. Il mio corpo è degli altri, il mio corpo è negli occhi degli altri.
Percorro le strade del deserto come un lupo che non sa di altri territori,
un lupo in estinzione condannato alla sabbia, all’arsura e al vento. Un lupo
della terra. Perché la terra è femmina e come le femmine desta bramosia e
scempio. La terra la si percorre come un sesso, la si trivella e bombarda,
la si circoscrive con frontiere e linee e pieghe. Come il sesso di una
femmina. Come il sesso di una femmina la terra è impura e ha il mestruo e
ospita velati i suoi nuovi dissidenti. I nuovi mangiatori di mestruo. Quel
sangue che trionfa e ci fa impazzire. Il sangue che scorre tra le gambe e
che dobbiamo nascondere perché è vita che si perde. Morbo malvagio il cui
odore le altre donne avvertono e proteggono come si copre un assassinio. La
terra esige il sangue, un lavacro scarlatto e pomposo di sangue d’uomini,
sangue buono ed eroico, sangue che esplode e imputridisce e canta e implora
altro sangue. Queste sono le due leggi e le due congiure: una è femmina e
segreta, l’altra è maschio e si veste di rosso pubblicamente. Raccolgo sassi
ed è l’una perpetua. I sassi parlano una lingua dimenticata, sussurrano di
una magia che mia nonna mi ha insegnato e guarisce. Sono i betili, i sessi
anneriti, le pietre che cantano. Ma questa è un’altra storia, quella di un
sole doppio e dei suoi travestimenti. Camminando in cerchio si accalcano i
ricordi, e i ricordi sono conchiglie dal guscio friabile. Le schiaccio, si
sbriciolano. Quand’ero bambina una volta percorsi il deserto da sola.
Allontanandomi mi persi. Fui inghiottita dalla sabbia fino ad arrivare a una
camera bianca, sotterranea. C’erano ombre profonde e sussurri. Si pregava a
voce sommessa. Ebbi paura. Sfioravo le pareti d’intonaco bianco e mi
chiedevo come fossi potuta arrivare in un luogo simile. Sentivo il gorgoglio
di una fonte e qualche risatina soffocata, mi accovacciai in un angolo
aspettando. Scorsi un’ombra rischiarata dall’interno, uno spettro che
proiettava un alone fioco. Qualcosa di umano e rassicurante, di cui non si
scorgeva che la sagoma. E quest’ombra mi vedeva, pronunciava il mio nome
tessendo profezie che non capivo. Mi chiamava donna-riccio. Creatura al cui
interno la carne sarebbe rimasta acquattata sotto un manto di aculei. Carne
dolce, carne e polpa succosa, sotto pietre che cantano. Sparì il profeta del
corpo, l’hamam sepolto e i miei anni. Il deserto ora splende. Ho un libro
miniato aperto sulla pagina con un cespo di rose selvatiche, rose purpuree.
Incolte. È l’una. Il mio cuore non è lieto. Il vento fa sembrare gli
scricchiolii delle ante la mano di un intruso; il vento rovista alla cieca.
Il cuore non è lieto, lo sento in tumulto nella penombra combusta, nella
calura, nel mezzo vuoto della casa, della parte di casa riservata a me che
sono l’invisibile. Magda è partita e ha lasciato un biglietto sotto la
porta. Tornerà quando il vento avrà spazzato le colline e le mie mani
saranno tranquille. Magda è mia sorella. Ha fianchi larghi e occhi torbidi,
rimpiange quel che abbiamo perso.
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