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I racconti di Bosco Marengo (prima (p)arte)

EB di Terzet

La Giraffa Glenda

 

Una sera la stella cometa 6F6I6 volle fare un dispetto alla Luna che stava ancora riposando prima di prendere servizio. Le passò vicinissima e con un colpo della sua coda spelacchiata  la imbrattò tutta con le sue scie, al punto che quando si presentò al suo posto, in alto nel cielo, la Luna era tanto sporca che non si vedeva più dalla Terra.

La Luna era molto dispiaciuta e dagli occhi neri le cadde qualche lacrima. I pesci per la tristezza sputarono l'acqua che avevano in bocca e grosse bolle si alzarono verso il cielo coprendo tutte le cose di una patina umidiccia. Gli uccelli del cielo sbatterono forte le ali andando in su e in giù, sollevando nuvole di polvere dappertutto. Le rane e i rospi non smisero più di fare il loro rumore  che si sparse dappertutto. Gli uomini si resero  conto che era successo qualche cosa di strano e di triste e che il mondo non era più lo stesso  di prima. Tutti si chiedevano che cosa potevano fare senza capirci niente.

Ma da quelle parti arrivò, tranquillamente passeggiando, una bellissima giraffa dal lunghissimo collo.

La Giraffa Glenda si alzò in piedi sulle alte gambe, stirò il collo al massimo dei suoi muscoli e tanto lo stirò che raggiunse il cielo. Con una dolce carezza della sua grande e lunga lingua, pulì così bene la faccia della Luna che brillò più bianca di prima.

Da quella notte la Luna e la Giraffa diventarono amiche: la Luna spandeva un poco  più di luce su Glenda che, a sua volta, stava sempre attenta a pulire ogni pur piccolissima macchiolina  che comparisse sul viso dell'amica.

Dal tempo di quell'amicizia,  gli uomini gli animali le piante della Terra furono più felici .

 

 

Plinio il Leone bianco 

 

Mentre stava passeggiando per la savana dove era nato un anno prima, Plinio il leone bianco pensava ai suoi fratelli che erano tutti marroncini come il caffelatte e alla mamma  che dopo averli partoriti e averli addestrati li aveva lasciati, ormai autonomi. Era lì che stava annusando la base di un arbusto, quando sentì un rumore che non aveva mai sentito. Non si preoccupò molto, ma mise in atto tutte le strategie che aveva imparato per essere pronto ad ogni occasione. Il rumore terminò.

Plinio lasciò il posto e si mise a guardare l'orizzonte, poi il cielo perché sentiva che si stava avvicinando un temporale estivo. Era contento perché da tre giorni soffriva molto della calura. Ecco di nuovo il rumore. Si allarma, alza le orecchie, allunga la testa, stira il corpo.  E' pronto, ma il rumore non si sente più. Rimane fermo girando la testa lentamente verso destra, poi verso sinistra. Vede una cosa che non aveva mai visto: un oggetto che avanzava

giallo con sopra qualcosa che si muove. Veniva verso di lui. Allungò di più il muso e annusò l'aria per capire meglio. Sentì un odore acre. Poi risentì il rumore che diventava sempre più forte. Si sedette sulle zampe posteriori sempre puntando il muso verso quella cosa sconosciuta.

Ad un tratto si distrasse per una nuvola di farfalle. Gli piacevano e gli piaceva rincorrerle per gioco, attento a non colpirle con la possente zampa. Quella piacevole distrazione fu fatale: quella cosa, che gli uomini  chiamano jeeppone, gli era accanto e una grossa rete lo aveva imprigionato. Plinio non sapeva che cosa fare se non dare strattoni, tentare di rompere la rete con le zampe, mordere. Dal jeeppone spararono una fucilata e Plinio si sentì subito stordito, lanciò un ruggito di sorpresa e rabbia, stramazzò a terra.

Si risvegliò dentro una gabbia. Era ancora sottosopra, e triste perchè non sapeva dove fosse, soprattutto non poteva andare e fare quello che voleva. Mentre veniva sballottato sentì un fruscio vicino alla gabbia: erano le sue amiche farfalle, tutte e tante altre che si affacendavano sul lucchetto della gabbia per aprirlo. Ci riuscirono proprio quando il treno, così lo chiamano gli uomini, prese una curva stretta e lunga. Le farfalle avevano aperto anche la porta del vagone e così Plinio potè saltare fuori dal treno con le sue amiche. Si fermò un attimo, scosse la testa roteandola tutta, poi con passo più sicuro ritornò in direzione della savana dove continuò a giocare con le farfalle che erano diventate tutte bianche.

 

 

Sulpicio il Serpente giallo

 

Sulpicio se ne stava arrotolato dentro la gabbia di vetro che puzzava a tal punto che ogni tanto cacciava la testa sotto il corpo per respirare meglio. Quando non sapeva che fare strisciava sino alla ciotola che conteva del liquido nerastro frammisto di paglia e pezzetti di legno. Non era molto soddisfatto della sua situazione, soprattutto perché  non poteva correre lungo il terreno, tra il fogliame del sottobosco cercando di catturare un riccio una lucertola un coniglio. Era stanco, aveva bisogno di sgranchirsi i muscoli, di cambiare aria. Sapeva che se fosse rimasto lì ancora per molto, sarebbe stato assalito dalla tristezza  se non addirittura dalla malinconia giacché erano mesi che non mangiava ed era diventato tutto magro e  giallo a trattini neri. Passavano persone a guardarlo velocemente, a leggere il cartellino della sua razza, delle sue abitudini e del suo nome, da così tanto tempo passavano che non ci faceva più caso.

Un giorno l'inserviente che puliva le gabbie, lasciò il vetro alzato per cambiare la paglia e mettere dell'acqua nella ciotola, mentre una signora  con un cappellino di piume di struzzo  e una borsetta gialla osservava attenta e a distanza di sicurezza. Era la moglie del padrone. Sulpicio pensò che questa era la sua occasione. Raccolse tutte le forze, si arrotolò  come una fionda e si lanciò verso la borsetta della signora. Si stampò  su un lato appiattendosi tra le pieghe della pelle sintetica, diventandone un tutt'uno.

La signora finì il suo giro e rientrò, in macchina, verso casa. Sulpicio stava incollato alla borsetta in perfetto silenzio. Quando la signora arrivò a casa, Sulpicio si lasciò cadere per terra e si acquattò tra delle pietre e del fogliame marcito, dove si costruì la tana. Era diventato un grandissimo serpente tutto giallo con qualche lineetta nera e stava bene, era contento delle passeggiate, delle mangiate di topi, delle bevute sotto la vasca dei pesci

rossi.

Sulpicio visse là per 150 anni.

Una notte la figlia della signora, da tempo morta, uscendo di casa inciampò in un grumo giallo e nero. Con un urlo la donna scappò a chiamare il cameriere che, presa una paletta, mise quella sporcizia in un sacco nero e lo gettò nella pattumiera.

 

 

Robin il Ragnetto rosso

 

Robin, un minuscolo ragnetto tutto rosso si era costruito la sua casa in un bel salone di una villa di campagna, in alto a destra entrando, sulla verticale tra due pareti e il soffitto. Un piccolo buco perfettamente rotondo da cui entrava ed usciva con regolare precisione ogni giorno all'ora del tè. Alle cinque, non per servirlo agli animaletti che si trovavano sui muri o per l'aria, ma per far capire che lui comandava in quel salone, che tutto doveva passare attraverso il suo consenso. Gli altri animali volanti dai moscerini alle piccole mosche,  ai ragni, ai più colorati insetti avevano accettato il suo dominio. Quando Robin, alle sei precise, rientrava nel buco rotondo, volevamo dire nella sua casa, anche tutti gli altri abitanti del salone rientravano nelle loro abitazioni.

Un giorno Robin, stanchissimo di una lunga ed inutile caccia, si addormentò oltre le cinque e non uscì. Stupiti, gli altri animaletti misero la testa fuori dalle tane per vedere la situazione e non vedendo Robin, uscirono disordinatamente, felicissimi di non dover sottostare al piccolo ragnetto rosso. Girarono volarono sporcarono mangiarono succhiarono, fecero una baldoria mai vista ed erano talmente fuori di sé che non si accorsero che Robin era uscito dalla sua casa e li stava osservando. Era furioso. Era soprattutto stupito di quel disordine e decise di rimettere le cose a posto.

Camminò sino alla tenda che ombreggiava la sala, si fermò e  cominciò a richiamare quegli indisciplinati che tentarono la fuga da ogni parte verso i loro rifugi. Spariti che furono,  Robin fu soddisfatto, si asciugò la bocca con le lunghe gambe e si rimise in marcia verso la sua casetta. Ma proprio in quel momento, una tempesta terribile come quella che aveva sentito narrare da un grande poeta inglese, si abbattè su di lui. In brevissimo tempo, si sentì stordito, vacillante, ubriaco di quella strana acqua e si sentì cadere.

Precipitò dal muro al pavimento dove un mostro scuro lo succhiò in un battibaleno. Gli altri animaletti, sentito tanto tremendo rumore, misero fuori la testa e  videro tutto quanto.  Molti di loro, anche se non erano amici di Robin, avevano gli occhi lucidi di lacrime, perchè avevano capito che il tempo del tè era finito.

 

Bela la Tartaruga dispettosa

 

La tartaruga si era trovata inaspettatamente nella casa. Guardandosi attorno, le piacquero

i colori, azzurro e rosso, i ninnoli che immobili la guardavano con benevolenza,  specialmente la ballerina bavarese che si muoveva attorno ad uno specchio e l'automobilina blu un pò impacciata perché era anche un temperalapis. Anche la televisione, coi suoi occhi a mandorla, le sorrise e Bela la tartaruga decise di restare lì, in quella casa che era poi una stanza e si andò a piazzare sotto la poltrona del padrone di casa.

Le venne data subito dell'insalata freschissima, assieme con del cocomero e i pomodori. Bela guardava questi pezzi, li toccava con la punta del muso e non li mangiava, li lasciava marcire e tentava di fuggire verso la luce. Era troppo giovane per capire che doveva mangiare, se voleva diventare una bella robusta tartaruga verde, marrone, giallobianca.

No, non ne voleva sapere di mangiare, anche se portata all'esterno in un piccolo  recinto  con  tanta sabbia; rifiutava ogni cosa, solo spiluzzicava un formaggio molle e giallino, ma sembrava volesse fuggire sia il sole che la rugiada.

Si pensò di farla star meglio in una parte del giardino, riconvertita appositamente,  con  spazi di sole, spazi di ombra e spazi per ripararsi sotto la sabbia.

Niente. Bela non mangiava e continuava a tentar di fuggire.

Una notte, riuscì a scavalcare, mettendo in campo tutte le sue forze forse aiutata da un riccio

che abitava lì, il muretto che cingeva i suoi 4 metri quadri. Cominciò a camminare veloce nel prato, superò gli alberi, le rose inglesi, il lastricato di tufo, i vasi colorati delle piante  grasse, s'infilò per il cancello e fu fuori.

Si fermò un momento, ma non  potè riprendere fiato che sentì una gigantesca ruota. Bela restò sulla strada asfaltata, senza aver mangiato e raggiunto la luce.


 

Clio la Biscia fifona

 

Non sapeva da quanto stava lì, a ridosso di un muretto confinario, vicino a un tubo nero ,  nella terra umida. Clio era una biscia bianca punteggiata di nero, lunga 250 metri,  con una lingua rossa, molto curiosa. Tanto curiosa che iniziò ad interessarsi del tubo nero da quando vide che si muoveva e ogni tanto sputava acqua. Credeva che fosse un animale esotico. Ne era invidiosa. Molto, tanto che volle avvicinarsi a lui per conoscerlo meglio. Il tubo nero non si mosse. Lo toccò con la lingua. Niente. Lo ritoccò. Ancora niente. L'invidia saliva. Lentamente si avvicinò di più e lo toccò con la sua pancia rigonfia. Niente. Allora decise di stargli accanto per vedere che cosa facesse, che cosa fosse accaduto se lo avesse imitato. Si allungò, si divincolò, si ritirò e si distese, stette fermissima come lui, non mangiò e non bevve come lui, tanto che dopo una settimana era diventata uno stecchino vicino al grosso tubo nero, imperterrito. Era tanto magra che un'edera novella la scambiò per un pezzetto di legno e le si avvinghiò tutt'attorno, portandosela via in alto, sopra un albero. Clio, sempre più impaurita, stava immobile sul tronco da dove vide il giardino e il tubo nero da un'altra prospettiva: dall'alto. Benché stanca per il digiuno, Clio era curiosa contenta e tremebonda di vedere l'erba, i fiori, le formiche, le lucertole, i pesci della vasca dall'alto, come il tubo nero che continuava a rimanere fermo.

Un giorno vide il padrone di casa andare verso il rubinetto, svitare un aggeggio dorato e tirare con forza. Con stupore vide che il tubo nero si muoveva dalla sua tana e strisciava verso il padrone che, preso il tubo nero con le mani, lo arrotolò ben bene e lo gettò nella pattumiera.

Clio finalmente capì. Si lasciò cadere dall'albero e guardinga ritornò alla sua tana, contenta che il tubo nero non ci fosse più, contenta di poter ricominciare a bere a mangiare a dormire vicino al suo muretto, in santa pace.


 

Bilbo il Riccio permaloso

 

Era abituato ad uscire tutte le sere, dopo la cena nella sua bella tana. Usciva a fare una lunga passeggiata nelle sere d'estate, attraversando la strada asfaltata piena di traffico, di occhi luminosi che oramai aveva imparato a vedere e schivare allungando le sue zampette.

Una sera, dopo aver mangiato e bevuto 100 pinte di scura irlandese decise di uscire lo stesso per respirare l'aria fresca della notte. Capì di essere strano e diverso dalle altre sere,  quando cominciò a vedere sei e poi otto e poi mille occhi luminosi. Pensò che forse il traffico era aumentato, infatti era sabato e sapeva che gli uomini uscivano per divertirsi. Invece di attraversare il solito fosso che lo portava al ciglio della strada asfaltata, girò a destra e s'incamminò lungo il margine interno del prato e in men che non si dica perse l'orientamento.

Non capì più niente e tutta la testa gli ribolliva. Era completamente ubriaco.

Si ritrovò di fronte ad un cancello, lo attraversò e si ritrovò tra un folto e scuro giardino con qualche luce qua e là che gli servì per tentare di andare diritto e non a tentoni. Sentì delle voci gentili e sorridenti che lo rassicurarono. Continuò ad avanzare. Le voci cessarono. Si fermò.

Nessun rumore se non il tintinnare di non sapeva che, dentro la sua testa. Avanzò lento e inciampò su di un piattino bianco pieno di miele e birra.

Ancora birra, non ne poteva più. Schivò l'ostacolo e siccome gli parve di vedere un buco si diresse colà.

Si trovò dentro uno spazio larghissimo con della sabbia, del terriccio e qualche ciuffo di erba selvatica. Il posto era tranquillo e fresco. Si fermò, scavò la terra e si mise a dormire.

Il giorno dopo si svegliò tardissimo e uscendo dal buco sentì che il sole bolliva le zolle e di aver sete. Cercò di raccapezzarsi per trovare qualche cosa che tagliasse la sua sete. Trovò una pozza d'acqua che ondulava secondo l'andare e il venire del venticello. Si portò al bordo dell'acqua e cominciò a bere incurante di quello che accadeva d'intorno. Tanto aveva sete che bevve tutta l'acqua sino a che non vomitò tutta la birra della notte precedente e   l'acqua  appena ingurgitata. Stava tanto male che si arrovesciò sul dorso, la pancia all'aria e non s'accorse che era già nella bocca di un gatto fulvo che se lo portò lontano da quel bel giardino.

 

Glauco il Pavone triste

 

Fuggiva da un allevamento di pavoni che riforniva una grande industria di accessori per cappelli. Il pavone scappò a zampe levate dai guardiani che lanciavano funi e cappi per prenderlo e riportarlo indietro. Scappò senza pensare e badare a niente.

Glauco si svegliò di soprassalto. Aveva sognato. Era ancora nella gabbia e lo spiazzo dell'allevamento era silenzioso e illuminato come ogni sera. Glauco ripensò al sogno e cominciò ad osservare le reti delle gabbie, le beccò per saggiarne la robustezza, si appoggiò con tutta la sua forza per storcerle. Si era messo in mente che il sogno fosse una premonizione, un segno e volle seguire questo pensiero.

Glauco era decisissimo: voleva scappare. Si mise al centro della gabbia, quasi sull'attenti, ritirò verso il corpo le penne coloratissime: dal rosso all'azzurro al verde al rosa al bianco al magenta, lucidissime e stiratissime. Compresse al massimo il torace e allungando il collo s'infilò nello spazio rettangolare del reticolo e cominciò a spingersi in avanti. Prima la testa, poi il collo, uno sforzo maggiore per il corpo, poi le cosce, quindi le zampe. Era fuori.  Libero.

Si guardò attorno. Non vide nessuno e nessuno lo vide. Glauco sapeva che si poteva nascondere tra i giardini delle case e di diresse là con la velocità di un missile. In un nanosecondo era davanti al cancello socchiuso, entrò e si fermò per riprendere fiato. Ce l'aveva fatta.  Andò verso la vasca delle carpe giapponesi e si dissetò. Alla luce della luna e dei fanali stradali si vide. Inorridì. Riguardò incredulo. Era vero. Le sue bellissime piume non avevano più alcun colore, erano tutte grigie nere e stropicciate. Non aveva speranza e non sapeva che erano state le reti della gabbia a fargli perdere i colori di cui era orgogliosissimo.

Glauco smise di bere. Avanzò nel giardino togliendosi una penna ad ogni passo. Era diventato un'altra cosa. Tristissimo si lasciò cadere sui mattoni del forno a legna.  


 

Lucilla la Lucertola nera

 

Lucilla era una bellissima lucertola nata nel quartiere più elegante di Londra. Parlava 150 lingue e aveva girato il mondo per poi fermarsi nel giardino che l'aveva incantata e che aveva scelto come sua residenza estiva. Sarebbe stata addirittura felice se le altre lucertole, troppo provinciali e paesane, non l'avessero snobbata, non degnandola di uno sguardo o di una bella passeggiata al sole lungo la parte rocciosa del prato, sotto gli aceri rossi. Lucilla era sempre sola e andava cercando un bel lucertolo per potersi accasare e mettere al mondo tanti lucertolini e lucertoline, ma non trovava nessuno che la salutasse, che la trovasse attraente. Eppure era bellissima ed aveva avuto una educazione aristocratica, con i migliori grilli  e pavoni e barbagianni. Si sentiva mancare il fiato e non voleva andare via da quel giardino che amava, anche per non darla vinta alle altre comari lucertole che intanto figliavano a più non posso.

Una sera, stava girellando tra le pietre e i tufi annoiandosi della solitudine, quando sentì un brusio dietro le spalle, come un soffio, come una frase. Si voltò e vide un bel lucertolo che la stava guardando e dagli occhi si capiva che era attratto dalla sua bellezza e che voleva fare la sua conoscenza. Lucilla, da signora, mise avanti patti chiari. Va bene il corteggiamento e l'amore, ma bisognava che il lucertolo prendesse le sue responsabilità e si accasasse  con lei. Egli accettò e andarono a costruirsi una bellissima villa tra grosse rocce che separavano le Austin. Dopo meno di un'ora depose 3750 bellissime uova, candide come la neve,  perfettamente ovali. Era felice e stava lì a guardarle, quando una mano enorme le prese  tutte. Era una bambina che era venuta a visitare il giardino e che vedendo quelle stupende uova pensò di infilarle una nell'altra per fare delle collane, che andò a vendere in città.


 

Mir la Farfalla russa

 

L'avevano battezzata con un nome impegnativo, Mir. Si ricordava benissimo la grande cerimonia piena di canti ed incensi nella cattedrale di San Giorgio. Quando divenne più grande si sposò con un bellissimo farfallo del Reno che però la lasciò vedova presto,  stroncato da una broncopolmonite.

Per non ricordare i luoghi della tristezza era volata verso il Sud ed era capitata nel giardino per caso.  Aveva svolazzato un poco, ma non contenta della fragranza, se ne era andata via. Dopo 350 anni eccola di nuovo nel giardino che i padroni avevano reso più rigoglioso e colorato di fiori profumatissimi.

Adesso Mir era contenta di essere là e volava su e giù, andava da un cespuglio rosa ad un grande albero pieno di spine e di fiori bianchi. Torneava tra le bacche del piracantha per poi saettare verso le rugose d'Austria, per adagiarsi sul ciclamino del mesenbriantemo.  Si sentiva proprio bene.

Una sera, il sole non ancora basso, vide una farfalla dai colori fosforescenti, in cima ad uno stelo verdissimo; si avvicinò, mandò i suoi segnali invisibili e non udibili per dire alla compagna che voleva fare amicizia. Costei non rispose e rimase immobile. Ritentò alcune volte segnando il cielo e l'aria di volute che erano parole speciali per la futura amica. Non ebbe nessuna risposta. Quella farfalla restava ferma anche al venticello che si era alzato.

Mir, mentre continuava a volare intorno, si accorse di una cosa che la preoccupò. L'amica aveva perso un'ala che era caduta alle radici del fiore. Mir si addolorò perché ormai amava quella farfalla mancante di un'ala e che sapeva destinata alla morte. Volteggiò ancora per tre volte in segno di omaggio e di amore e poi si lasciò andare sul pelo d'acqua della vicina vasca di marmo rosso di Turchia, dove rimase per sempre ad aspettare, bellissima e attraente.


 

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