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Poesia in luce e di luce

Sandro Giovannini

Ciò che  emerge alla  luce  trascina con sé una forza della necessità esperita e concreta.  Non si può credere in buona fede che ciò che è reale non abbia comunque almeno un’ombra, nel sé manifestato, di un processo antico e profondo. Per questa evidenza si spegne ogni livida invidia sull’ineluttabilità della manifestazione, per quanto si debba correggere questa sorta di  “realismo magico”, con ogni possibile consapevolezza sui livelli gerarchici delle potenzialità pure, dei conpossibili e delle reali emergenze, che la Necessità, nome cangiante di luogo in luogo e di era in era, determina.  Anche nella individuata sensibilità di un poeta, tale svelamento richiama il processo dell’emergere all’evidenza, piuttosto che l’affermazione perentoria della veritas, anche se nel dire della poesia c’è, alla fine del percorso creativo, un punto di stasi e d’equilibrio, che è il precipitato  scritturale.   Altra cosa  è la ventura della parola, una volta uscita dal percorso creativo dell’autore e pervenuta in quello relazionale dei fruitori a varia ragione e livello.   Ma in tale prima emergenza che è assieme  risoluzione  per compulsione ed acquietamento, il filtro nel microcosmo dell’autore richiama incredibilmente quello che si realizza nel macrocosmo.   Quindi  per chi si affanna a  scorrere registri di valore - diciamo “esterni” -  c’è, prima o poi, la delusione somma del comprendere (o dell’intuire) che sono i processi  (così interni come esterni) a determinare le qualità emerse, questi icebergs nel mare della fertilità comunicativa.  Dicendo processi intendiamo: figure simboliche profonde ed attive, visioni del mondo già parametrate sul “reale”,  ansie  più o meno verificate di corrispondenza tra significati e significanti e tutta la congerie ultima dei portati psicologici e relazionali. Ma questo avvertire la forza dei processi (nel loro statuto epistemologico più che nel loro porsi qui ed ora)  è  una banalizzazione nominalistica  od un carpire il seme di ragione, qualcosa di assolutamente dato e circoscritto nella nostra mano ma che sappiamo potersi  mutare trasformando?   I “processi” disancorano la nostra vocazione dalle secche  dell’umano-troppo-umano.   Non sono sogni di onnipotenza ma ipostasi uscite dalla porta cornea, suggestioni ove nulla  spunta e permane di  “reale”, se il  “sottile” non può così esserne ricompreso,  cioè  strutture eminentemente di servizio (non a noi ma al Dio che viene) se noi volessimo consapevolmente servircene.  Comprenderemmo così  che non possiamo donare niente di più di ciò che abbiamo, (ed è banalità ridirselo ma non capirlo) e che ciò che abbiamo non spetta a noi, se non per la corrispondenza che noi potremmo creare, a dar segno di non-essenzialismo portato con stile, che  può mutarsi  in “creazione”, vivendo consapevolmente tale paradosso.  Sapremmo poi che siamo ombra del Dio, se tali processi, tali strutture, digradando in noi, come fuori da noi, ci responsabilizzassero in una scelta continua, accorta e contemporaneamente generosa. Non presumere cioè del sé esterno, della maschera che con sofferenza e costanza dobbiamo imporci, diversa ed eguale alle circostanze ed alle pulsioni, ma pretendere dal sé interno, da quell’essenza infantile che ci ha fatto amare prima, non tradire poi, inverare in ultimo, le nostre figure simboliche primarie, diverse ed insostituibili.   Il nominalismo combinatorio ed orizzontale si trasforma così in una nominazione che non ci spetta, (spetta al Sacro) ma che ci riguarda.  Noi non siamo gli autori, noi siamo delle antenne tra supero ed infero e lo stare in piedi è necessario e dolente perchè oltre la Patria e la Comunità di destino, noi siamo scelti  in una particolarissima  linea d’onda per esser posti in attesa e l’esserne consapevoli non inverte il problema ma solo la qualità della ricezione.  Quanto a ciò che poi viene, attraverso noi, trasmesso, possiamo sfruttare la metafora fino al possibile, ma non ci diremmo del distacco e della gioia di tale non-essenzialità vissuta con dignità e passione, con voglia di essere partecipi, fino alla fine della notte e fino in fondo,  lontani per quanto umanamente possibile dal frutto dell’azione.  Ma non ne diamo la versione stordita ed ammiccante; sferzante è il distacco  e “professus grandia turget”.  Se  di buone cose siamo veicolo, il carro potrà esser sgangherato, ma non sarà mai inutile o soltanto ridicolo.  Minaccerà piedi e gambe e sul selciato si muoverà sghembo e non privo di una sua terribilità rumorosa e  tragica.  Agli svenati e ai dirazzati lasciamo la bonomia occhiuta e lo stare infelicemente in luce, felici del tempo infame di cui sono degni portavoce: si credono di poterci controllare dicendoci dell’inevitabile perdita di linfa nell’epoca del pensiero congiuntivo e della terribilità preumanistica (se non addirittura pre-umana) del pensiero disgiuntivo. Ma non cadremo nella trappola:  i due sistemi hanno i loro inferni paralleli, e noi siamo liberi di scegliere. Se la parodia del sistema disgiuntivo è lo sterminio dei cervelli la corrispondente è l’annichilimento dei cuori.  E come si potrebbe, per noi, fare poesia, ora, cantando da una palude?   Ma la facciamo ed ancora la faremo, di volta in volta ritrovando un equilibrio, per nulla, per nessuna parola, per nessun concetto, influenzato dal tempo che non ci piace e che non accettiamo, così com’è: dovremo “rassegnarci” ad esser sempre meno circondati da “avversari” e sperare di aver ancora intorno dei “nemici”.   La luce di cui parliamo, non passa attraverso tali vetri opachi se non essendo se stessa, indebolita, rifratta, ma se stessa, impossibile alla diversità se non  nell’appercezione ottica di chi la riceve: ciò ci esime dal dover essere per forza tolleranti con la diversità, la diversità rivelandosi sempre più un inno alle condizionalità percettive, a cui tutti siamo disgraziatamente sottoposti, ma non alla ragione intrinseca dell’emissione.  La diversità quindi come innegabile ragione diffusiva, rintracciabile comunque e dovunque, ad ogni stadio di esame e di sensibilità.  Ma crediamo nella  logica dell’Uno come sperimentiamo l’ineludibilità del molteplice.  La simbolicità tradizionale, il personalismo corale, la poetica del valore, la libertà della forma, la riconoscibilità della forma, l’opzione poematica, sono linee di riconoscimento più che strumenti operativi da noi messi in campo per un recupero d’identità creativa.  In tal senso noi veniamo comunque alla luce pur non essendo più “operativamente” in relazione con miti archetipici, capaci di riattivare in immagine e sensazione  una identificazione con processi efficaci di partecipazione alla ragione del cosmos ed essendo generalmente e genericamente immersi nei miti obliqui della costatazione del caos.   La  “creattività”, ovvero la creatività che simpaticamente si attiva (potere di svelamento della condizione d’inessenzialità e conseguente ricostruzione della nostra personalità agente) usando indifferentemente la logica  induttiva e deduttiva, in una sorta di abduzione come metodo di mutua chiarificazione, è forza di intervento e di resistenza contro la  “creatività diffusa” o la   “creatività surrogatoria”, che impera oggi, funzionale al mostro dell’apparato.  Il mito non si reinventa, si può solo scoprire tra i risvolti e la fungibilità dell’esistente, come ombra della luce vissuta in ogni umano rapporto; il sacro, il metapolitico, il politico, l’esistenziale, il sociale, il professionale, il sindacale, il familiare, il personale, quasi come se noi non operassimo nel caos ma dal caos, il caos essendo una condizione data e pericolosa ma non decisiva, nella risultante  finale  dei nostri  atti e dei nostri sogni.  In tal senso ogni buona memoria o profonda evocazione, non pastorelleria né autoinganno, né semplice o facile fantasticheria, ci dovrà guidare alla luce, sempre tesi al valore fondante ed alla verificabilità autocritica, per un equilibrio massimo tra dire e fare, tra relazionarsi e poetare.  Vita e poesia quando possibile alla luce, di luce, sempre.

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