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La bella afasia di Carlo Di Lieto

Ciro Vitiello

modello psicanalitico dell’interpretazione della letteratura

 

Negli anni Settanta del secolo scorso la teoria critica elaborò nuovi strumenti al fine di meglio comprendere, valutare e giudicare i valori della testualità letteraria. Apparvero subito di notevole utilità la semiologia, lo strutturalismo, la psicoanalisi, i cui metodi consentirono di toccare i recessi invisibili e oscuri sottesi alla natura propria del testo, nell’ambito sia della parola che della psiche. Se con i primi due sistemi si potevano investigare i movimenti e le strutture dei linguaggi, con la psicoanalisi si prefigurò la discesa nella profondità dell’inconscio e l’agire dell’Io in stati di alienazione, di alterità, di perdita di identità. Con una evoluzione fondamentale, si pervenne a scoprire, dietro la finzione letteraria, le verità esistenziali e le aporie della storia, della psicologia, che formano, nel poeta, l’ossatura portante delle visioni oniriche o immaginarie e nei personaggi la quintessenza dei grovigli di vicende e di tormenti (includendo, logicamente, il poeta/personaggio, motore di ogni contenuto psichico). In verità, la scienza psicanalitica usata come analisi della cosa letteraria trovò, ben presto, proprio nel costituirsi a sistema d’indagine, un’opposizione ferma, da parte di psicoanalisti e psicologi. Alla traslitterazione fu ostile il celebre psicologo Cesare Musatti che riteneva che “lo specialista concepisce la psicanalisi come un insieme di teorie, di concetti e di tecniche precise” e non già come “indeterminate suggestioni e tendenze riguardanti vagamente il modo di rappresentarsi la vita interiore”. E però attenuò il giudizio quando lesse La psicanalisi nella cultura italiana di Michel David, una ricerca puntuale e circostanziata volta a mettere in evidenza il sotterraneo movimento della psicologia nella specularità della letteratura, identificando, nei casi evidenti, l’autore con il personaggio e cogliendo la divisione del soggetto tra Io e l’Altro specchiato. Svevo, da questa prospettiva, è Zeno, modello più affascinante, la cui rappresentazioni trova radici nella conoscenza di Freud, senza il quale non avrebbe mai conosciuto per logica le sue fobie, le ossessioni della malattia, l’incertezza e i dubbi dell’esistenza: così il fumo è pretesto per discendere nell’oscurità della psiche- sito di dubbi e di tormenti- e indagarsi e raggiungere la ragione del proprio esistere, di modo che Zeno non è solamente Altro ma è l’Io nell’Altro, ossia una identificazione illuminante per la uscita dall’alienazione. Non meno importante è la condizione di Saba, che rivela nella sua scrittura il senso e il valore dell’inquietudine esistenziale, perché si riflette nell’ansia all’evasione da sé, attraverso il sogno, dove si sente annichilito: “Il sogno è un terribile Iddio;/è il solo che sa smascherare /l’animo mio”, e nella sua coscienza arde l’Io come prigioniero dell’abisso alla ricerca della verità. Appare evidente che Saba e Svevo costituiscono la prova più autentica dell’importanza che la metodologia psicanalitica ha dato e potrà dare nella ricerca letteraria per illuminare le regioni dell’anima e i processi interattivi della scrittura automatica fino alle sorgenti dotte e cariche di patologie che connotavano l’estremo disagio della storia e della civiltà, come è riscontrabile in quel Laborintus di Sanguineti, il cui carattere di fondo è innescato sui valori junghiani esplodenti tra psicologia e alchimia nella sintesi erompente dei contenuti strategici dell’inconscio. Si affermò, sempre in quegli anni, una moltitudine di studiosi che produssero, sul versante della teoria letteraria, importanti interpretazioni (da e oltre Freud): si evidenziarono e analizzarono tipologie nuove di scritture, dall’automatica al monologo interiore, ai processi onirici, alle massive procedure della sostanza irrazionale. Talché si scoprirono di poeti e scrittori plaghe originali, di grande impatto tematico e ideologico: così Savinio, Moravia, Landolfi, Gadda, Berto, Buzzati, Pasolini e tanti altri mostrarono l’altro versante della loro anima, quei luoghi oscuri in cui l’intelletto aveva indagato per una più autentica verità. Sulla teoria freudiana si elevarono studiosi che seppero dare uno sviluppo coerente e attivo alla conoscenza della condizione letteraria. Di eminente rilievo fu, in particolare, Jacques Lacan che si interessò della logica psichica, ritenendo fondamentale l’avvento del linguaggio non solo come appartenenza a un soggetto bensì come trasmissione di un universo invisibile (“inconscio”) del soggetto indipendentemente dalla sua volontà. Perché, in verità, come egli sostiene, “la psicanalisi non ha che un medium: la parola del paziente”, che volto nella funzione letteraria sta a significare che la parola dello scrittore è l’unica verità accertabile e tramite di essa è possibile discendere negli abissi dell’ignoto (in quanto non ancora noto). Se si immagina tra persona e personaggio identità, allora come il terapeuta lumeggia i grovigli dell’animo umano così il critico letterario lumeggia i tormenti agitati nei personaggi (Delitto e Castigo è un cosmo esemplare per un’analisi psicologica, intrecciata tuttavia alle condizioni di degrado morale della società). Chi opera sulla natura del soggetto (“io”) un’idea innovativa e un approfondimento contenutistico è R. D. Laing, per il quale l’uomo, per principio, è cosa e persona, e l’una e l’altra pertanto sono osservabili da molti punti di vista, per cui ogni volta la cosa come la persona cambia senso e significazione. E nell’uomo vi è una ricchezza di livelli, ossia l’Io, il Super- Io, l’Es, fuoco dell’essere che dà fecondità al soggetto. L’Io, sotto la spinta di uno stato allucinatorio, si divide, non divenendo duale ma dimidiato specularmente, io e te, in una interrelazione di contrasti e di percezioni (sul piano psichiatrico la finzione produce nel soggetto l’assenza della patologia che è scaricata nell’altro di sé). L’effetto autentico della divisione ingenera un io vero da un io falso, con la formazione di azioni coerenti, interpretabili nel permanente rovesciamento di prospettive. Se ne deduce che nell’ambito della letteratura tale fenomenologia è produttiva se il critico l’utilizza per personaggi che nella loro personalità presentano turbative psicologiche o mentali (di concetti, di sentimenti, di azioni, ecc.) altrimenti si forza e deforma il valore dell’analisi come del soggetto analizzato. È dunque del critico accortezza e prudenza nella indagine conoscitiva pre-interpretativa. A dare una nuova spinta alla teoria psicoanalitica fu Ignacio Matte Blanco. Questi parte dal fondamento per cui l’inconscio è il luogo inconosciuto di infiniti insiemi, organizzato in una struttura bi-logica e incardinato su alcuni principi essenziali, fra cui: 1) il principio di generalizzazione per cui l’‘inconscio è costituito da una serie di livelli di insiemi; 2) il principio di simmetria, per cui applicandosi tale principio “scompare lo spazio, il tempo, la distinzione tra parte e tutto, tra individuo e classe, tra individui, tra cose singole e scompare il principio di non-contraddizione”. L’essere, per Blanco, come per Laing, è lo stato normale dell’uomo, donde emerge la coscienza o essere simmetrico, che in sé non esiste ma è attivo in relazione al suo opposto, l’essere asimmetrico. Quindi le regioni dell’oscuro o abisso, che già fu valutato poeticamente da Baudelaire e da Rimbaud “veggente “, in termini di sensibilità intuitiva o pre-auto- psicoanalitico, costituiscono la rappresentazione in virtù della quale, con uno scatto laterale, si salta nel territorio della letteratura, divenendo, il pensiero complesso di Matte Blanco, una metodologia per analizzare e approfondire la cosa letteraria, configurata come scrittura riflettente i contenuti sensibili o patologici dell’inconscio.

 

Con specifica conoscenza della teoria psicoanalitica, avvalendosi di personali elaborazioni analitiche, Carlo Di Lieto si avventura in un’ area culturale, quella campana, ricca e complessa, per evidenziare i sensi e valori che animano i personaggi/poeti più importanti; e, nel contempo, per lumeggiare lo stato generale della civiltà letteraria nel profilo autogeno e polimorfico; infine per creare una fondazione costitutiva di una storia di vitalità psicoanalitica incardinata nel tessuto di storie come parti integrali della Storia. La coerenza della interpretazione, variabile e variata da poeta a poeta, la padronanza delle fonti teoriche richiamate, l’introiezione pulsionale nella consistenza dei singoli spiriti poetanti, fanno de La bella afasia, un testo di riferimento ineludibile per ulteriori perlustrazioni critiche nella stessa realtà letteraria. Il critico ha una visione aperta, non di tendenza, per cui può accogliere autori di varie formazioni e risoluzioni, da quelle tradizionali e quasi classiche a quelle sperimentali, linguistiche e strutturanti e stilistiche; semmai è di tendenza il carattere del metodo, nella concentrazione psicoanalitica, che ha precedenti illustri, da Orlando a Fornari, a Quintavalle, a Pagnini, a Rella i quali privilegiano l’aspetto di semiotica psicoanalitica. Di Lieto si immerge nel sommovimento psichico dei soggetti poetanti i quali trasferiscono i propri universi iconici “inconosciuti” nell’energia del linguaggio, tempio della rappresentazione, nelle cui plaghe oscure l’interprete scopre e porta alla luce valori inimmaginabili. Gli autori, prescelti anche con il conforto della “consacrazione da parte della critica ufficiale e dal largo consenso dei lettori”, sono: Marco Amendolara, Giovanni Barricelli, Giuseppina Luongo Bartolini, Antonio Spagnuolo , Carlo Felice Colucci, Fabio Dainotti, Giannino di Lieto, Luigi Fontanella, Alberto Mario Moriconi, Ugo Piscopo, Franco Riccio, Ciro Vitiello. In verità Di Lieto si sente compartecipe delle argomentazioni e dei principi e degli orientamenti largamente elaborati dal cileno Ignacio Matte Blanco, per il quale l’inconscio è un luogo non dell’ignoto in quanto rimosso, bensì come modo di essere con proprie caratteristiche differenti dal modo di essere della coscienza. La opportuna conoscenza del linguaggio, fondamentale per immergersi, a posteriori, nei suoi contenuti riflettenti e esorbitanti, consente al critico di illuminare la vera natura esistenziale intellettiva di un poeta morto suicida, Marco Amendolara, di cui “il disagio della poesia è nella complessa simbologia del profondo: la sua emozione diventa un’esperienza dell’infinito, il cui funzionamento inconscio nasce prima del logos, come intreccio di immagini”: quindi il logos/medium è la sede globale dove il fermento illimitato della psiche si incarna per farsi manifesto (e proprio per la ragione psicoanalitica, la parola non è mero strumento ma una ricchezza polisemica di valori. Carlo Di Lieto costruisce, dei singoli autori, il lievito dei sensi, delle attese, delle ansie, rilevando dal loro mondo prelogico (illuminato dal faro della parola, che volge, egregiamente, l’altrove in “ove”, ossia l’assenza in presenza di fatto) le tante valenze, tra esperienziali e ideali; indica le profondità delle coscienze; ne riordina i fermenti che tendono a farsi verbo, connotando così, a pieno, il senso e lo spessore della poesia come rappresentazione e moto sociale di pertinenza. Bisogna, a questo punto, guardare la effettiva configurazione della personalità degli autori. Poiché non è possibile di tutti sintetizzare, in verifica, il ragionamento del critico, è doveroso, tuttavia, almeno presentare i tratti salienti, “scoperti” dall’analisi del critico (il quale opera in modo opposto a quello del poeta: questi procede dall’intimo alla parola, quello dalla parola all’intimo, che rifonda nel suo linguaggio). Di Amendolara, morto suicida, Di Lieto ricerca le ansie, le delusioni, gli spostamenti di personalità, il desiderio di autodistruzione, per capire e motivare le ragioni profonde ma non oscure che portarono il poeta a compiere un gesto così estremo al fine di annullare l’essere di pene per sublime negazione. Egli afferma che: “il poeta trova per la realtà esterna il proprio appagamento temporaneo ma l’inquietudine nasce dalla perdita dell’oggetto d’amore, dall’avvilimento del sentimento di sé, che culmina, talvolta, nell’attesa delirante di una punizione. Il lutto e la melanconia sono invariabilmente legati alla reazione della perdita e dell’assenza”, insomma, in sintesi, “tutto il percorso si snoda lungo l’indistinta dissolvenza e con una fuga visionaria dalla realtà”: dunque la dissolvenza è lo stato in cui negarsi comporta il passaggio al nulla e all’infinità. Per Ugo Piscopo l’interpretazione di Di Lieto verte, in aderenza alla natura dell’opera, sul versante tematico, intessuto di sensi, di umori e tonificato da una sottile vena di parodia di giudizio e di valutazione, a denuncia dell’immoralità del potere, attento con rigore a contenere le proprie emozioni, le pulsioni eccessive, e soprattutto a salvare dall’oblio la ricchezza del mondo rurale ormai dissolto. Opportunamente il critico individua e stigmatizza un aspetto peculiare della poesia: “narrativo- ritmica”, con indugi su frammenti di realtà, i cui significati si compenetrano con la parola, per definire, in modo surreale, scene dal profondo contenuto onirico (e si tenga conto che Piscopo è conoscitore di Savinio e del surrealismo), e ne riconosce “l’immersione nell’attualità” e nella originaria terra d’Irpinia “con la fatica delle “nonne ancor vaghe fanciulle” e di Serra, avvertendo “l’inconciliabilità tra civiltà contadina e società dei consumi”. Di forte spessore culturale Piscopo si presenta, in sostanza, non dissimile da una pianta che domina i paesaggi. In Luigi Fontanella si originano dall’aura immaginativa flussi psichici in una scrittura che è l’estensione di un Io che si rispecchia in sé, nel duale tra Io e l’Altro; infatti, dice Di Lieto: “l’Io si allontana da sé stesso, per disvelare un nuovo io, che necessariamente è un altro da sé”, di modo che perfino l’esistenza rovesciata, interpretata dallo sguardo posto al di fuori, sostanzia che “l’uomo avverte la necessità di credersi altro da com’è, con la facoltà di immaginarsi diverso, in una realtà altra, che appare direttamente collegata all’esistenza della coscienza”. Con Moriconi il critico si affretta a marcare la dimensione dei ritmi polimorfici e politonali, soprattutto, la compresenza del grottesco, dell’ironico, del goliardico e cogliendo utile la “commistione tra lingua e dialetto, che, con sapiente alternanza, si integra nello stesso contesto delle idee”; in questo poeta, dietro la scrittura a scatti si cela la lezione carducciana, di un Carducci cantore dello storico fulgore, come monito al presente, che è rappresentato con un sorriso amaro.Scrive Di Lieto: “il Movere risum sdrammatizza la tragica sventura umana con il suo pesante fardello di ansie dissimulate”, e, in ultima analisi “il ripiegamento introspettivo è, senz’altro, il momento dirompente dell’immaginario di Moriconi”. Con Colucci l’affondo piscoanalitico è attanagliante, è l’ambito di maggiore efficienza teorica, in cui i principi “blanciani” danno la vera misura della loro necessità: “L’universo simmetrico e indivisibile della poesia di Colucci veicola una condizione psicologica che è “fuori di chiave””, verso lo slargo in cui la “coscienza captiva” proficuamente “consente il libero fluire delle immagini, quasi in uno stato di dormiveglia”, onde “l’asse narcisistico provoca discontinuità e ripensamenti, velature ed agnizioni con indizi da cui traspare un inconscio dissimulato”. Tale stato, tuttavia, in Fabio Dainotti è prospettato nel suo rovescio, la poesia è il circuito del visibile, in quanto presentazione di una coscienza rasserenata; d’altronde, Di Lieto, a giusta ragione, annota: “Dainotti esorcizza i fantasmi dell’inconscio, dietro la maschera classica”, proiettando nello scatto della tradizione la condizione della sua coscienza: “è nel sentire per immagini “, che si riporta “ad un tempo remoto, acronico, incantato” e disvela “un’autoanalisi di un insolito “candore”, che è prodromo di uno straniamento “alla maniera di Gozzano”. Parallela ma diversa è la configurazione poetica di Giovanni Barricelli, che agisce sul versante tradizionale, privo di scosse sperimentali, che procede con una scrittura calma e piana, in cui “il verso alato, nel sapiente gioco dei rinvii e degli slittamenti, opera la trasposizione dall’antico, nell’obliqua luce inquieta, del nostro presente”. In tale area della poesia, l’inconscio è quasi una consonanza di ripristino di echi lontani commisti alla visione di una realtà nella quale l’Io si applica per sentimenti a riformulare il corpo dell’esistenza in una espressività riflessiva e piana. La tradizione si estende nel dramma di una società ormai convulsa e dissonante. Dotata di buone qualità, Giuseppina Luongo Bartolini si avvale di una scrittura “continuata” e priva di pause al fine di eludere il ritmo a vantaggio di una conduzione che, in qualche modo, richiama lo stile automatico di introspezione surrealista. Senza dubbio, per questa poetessa, la poesia, sintetizza Di Lieto, “si innesta nell’immagine del mondo come surrealtà e dimensione dell’esserci, tra idealismo e materialismo”. Semplicità e chiarezza caratterizzano l’andamento poetico di Franco Riccio, il quale attinge a piene mani alla propria psicoesistenzialità, vista come progressione autoproducente: i sentimenti sono lievi, quasi leggiadri, e tuttavia nascondono una sofferenza contenuta e contratta con una dignità che gli viene dalla vera sofferenza corporale: l’anima si fa imbibizione di suoni e di voci presenti della realtà o della memoria. Di Lieto scrive: “La scrittura di Franco Riccio ha una funzione “consolatrice”, non si avvertono capogiri ermeneutici (…). Il suo particolare realismo è da intendersi anche come alterità di un vissuto in crisi e di una dolorosa esperienza dell’essere”. In altro ambito si trova Antonio Spagnuolo, che trivella il proprio inconscio, in perfetta verticalità, per gettate alla luce i materiali di pulsioni e di libido nell’agire dell’Eros, disciplinate tuttavia in una logica che, mentre struttura il dire, destruttura il sentire. Pertanto il critico può sostenere, a giusta causa, che è nel subliminare il sommovimento che provoca l’esplosione dell’inconscio verso un avamposto reale che, così, di per se stesso, è facies corrosiva. Ne consegue che in questo reale ontico il “pre-logico evidenzia un linguaggio che è fuori dalle norme (…) per investire quanto c’è di informale e di magmatico” e “il dualismo eros/thanatos riesce, in modo ossessivo, a sciogliere problematici dilemmi della condizione umana”. Per quanto attiene a Ciro Vitiello, Di Lieto scandaglia i valori sedimentati sotto l’apparenza, per squinternare, nel campo del razionale, le anomale strutture e le debordanti irrequietezze del sensibile. Individua le caratteristiche precipue sostanziali della poesia nella metafora ossessiva che è “trasfigurazione e mutamento della forma; declina e sublima la trasfigurazione concettuale, caricandola di nuovi significati”, d’altronde “è l’atemporalità dell’inconscio, che dischiude ampi orizzonti dal fascio della poesia”. Fino a immedesimarsi nell’introspezione ideologica e tematica che il poeta medesimo “guarda in “sé” e attraverso il “sé” raggiunge i suoi simili perché vivano i suoi valori e fondamenti di esistenza, di pensiero, di verità”. Auscultando i linguaggi dei poeti, correlandone motivi e distinzioni per una sintesi di cognizione espressiva tra inconscio e conscio, tra l’Io e l’Altro, (sintesi come superamento dell’Io diviso), Carlo Di Lieto è un “viaggiatore di visioni verticali” che esibisce nella giusta luce, connotandole, secondo i singoli linguaggi, quali figurazioni del visto e del vissuto riflesse nella trasmutazione di vicende irripetibili.

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