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Antonietta Dell’Arte, Il tema del padre, Passigli, 2008

Antonio Spagnuolo

Per tutti esiste una memoria del passato, una memoria di eventi che hanno suggellato nel bene o nel male i passi ed i passaggi della nostra esistenza, nel conoscibile intimo atto della contezza di una realtà, che appartiene soltanto a noi.

Nella consapevolezza dell’attimo epifanico, più fugace di un lampo, ma più aggressivo del trapano, il narrabile si immerge nel tempo  senza richiedere un dettagliato resoconto dell’istante, e, così come il ricordo, si palesa – il narrabile – attraverso la rielaborazione poetica della visione e del vissuto.

Condizione, momento ben preciso con una particolare catapulta, semplicemente registrata in un mosaico che vorrebbe avere lo stesso bagliore che dal frammento riesce a ricostruire il prestigio di un recupero, una consapevolezza  fuori del tempo che gioca tra un passato da rivivere e rielaborare come presente, e un presente che cerca nella nostalgia quell’autentico zufolare , motivo di sentimenti ed affetti.

Nella poesia contemporanea ci imbattiamo continuamente in alcuni tentativi che rasentano la incompiutezza, la frammentazione, la disarticolazione del verso e la distorsione delle forme per precipitare a volte nel registro discorsivo, per un linguaggio ordinario , allontanando molto spesso il poeta da quel prestigio che recupera la epifania poetica in tutta la sua evocazione magistrale .La pratica della ispirazione diviene quasi un intento, un gesto cosmico, una scelta che cerca di universalizzare il discorso attraverso figure riunite in un arcobaleno senza confini.

In queste pagine che Antonietta Dell’Arte ci offre, disincantata raccolta di brevi poesie, si incontra una dimensione che rievoca smarrimento e paura, nella solitudine della immagine paterna, strettamente sigillata all’agrodolce del rimpianto, o alla trasfigurazione del luogo mitico dell’infanzia, quasi tentativo di riempire i vuoti che l’infanzia stessa ha determinato con una sorta di stravolta tenerezza, e così appare che sistemi la propria materia , non senza, nei migliori momenti, efficaci effetti di straniamento, nelle cornici nobili del sentimento.

Si riallaccia nel titolo il tentativo di narrarsi, di raccontarsi in alcune suggestive esperienze straordinariamente vitali, cercando di partecipare un vagabondaggio, tentando di dare ordine ai ricordi ed ai pensieri che si accavallano in multi- colorate sospensioni, in una esperienza che si ispira ad una idea di poesia come operazione di rottura e di ricucimento, e che si affida alla compiutezza della espressione poetica in una percezione piena che recuperi una identità tutta segreta.

Ci sono dei passaggi molto significativi come in:

“e potrebbe la nostra storia / di padre e figlia – così grande amore -/ non interessare nessuno / ma da un punto la linea / dalla catena i nostri girotondi / da un raggio di luce l’incendio.” (pag. 55) – ove la poetessa sembra arrendersi alla insensibilità dell’altro alla propria storia d’amore filiale, giustificata dal grado di effettiva frammentazione del sentimento.

Un tentativo di mantenere coesa la realtà che invece sfugge, giorno dopo giorno, in un necessario destino che il tempo incide ad ognuno.

Una lettura distaccata dalle vicende umane in tanta parte del vissuto, in chiave diretta, a considerare le vicissitudini nascoste e incombenti insieme, il rapporto che coinvolge il quotidiano, fra il passato ed il presente, con malinconie e impazienze decantate fra ricordi e deludenti realtà. Così come suggerisce nella prefazione Vincenzo Guarracino : “ Sembrerebbe che nient’altro resterebbe da dire, salvo racchiudere e custodire gelosamente nello spazio del privato la festa di un sentimento, quello istituito nel rapporto padre-figlia, troppo grande per essere capito e condiviso, e questo allo scopo di preservarlo dal rischio di ogni fraintendimento: per paura o per pudore di non risultare significativi, esemplari: se a sconsigliare ogni timore e reticenza non ci fosse un’urgenza troppo grande, una voce di verità che si fa necessità ineludibile di rielaborare (per se e per gli altri) il senso di una storia, attraverso la parola, sulla scorta di una certezza, quella dell’amore, intesa come esperienza che continuamente si rifà presente per invadere e permeare tutto quanto lo spazio della vita, escludendo ogni idea di una fine, di un qualcosa di concluso in maniera irreversibile...”

Testimonianza di rilievo allora sono alcuni versi. “Tu lo sai/ quello che non amo di un altare/ è la sua presunzione di Dio/ porzioni da dare secondo meriti/ fantasmi distribuiti da un pulpito/ e non amo immolare gli agnelli/ bruciare le streghe non amo/ gli altari ce gestiscono guerre.” (pag. 86) – oppure “Forse sei nella mia foresta/ tigre o lupo in rivalsa/ da agnello sacrificato/ che ne sa dio delle nostre/ miserie eccelse/ forse come me pesce dell’abisso/ a sua insaputa.” (pag.95).

Un labirinto di problemi irrisolti si affaccia mentre i ricordi si affollano senza tregua, mentre gli anni tarlano il pensiero in immagini che rendono il testo di una misteriosa levità, risolta in un occhio che intravede una capacità analoga alla meraviglia, di uno improvviso sfibrarsi nel silenzio di quelle maglie che fitte come sono trasformano la rete del passato in un continuo riaccendersi nel presente.

Quando sembra impossibile trasferire in un mondo azzerato il nucleo più autentico dell’ispirazione la materia umana si esprime in una prova dolente prigioniera di un sentiero ben definito, nel destino umano e poetico che dilata l’immaginario fino a comprendere un tentativo di esorcizzare la pagina scritta. 

Le immagini per esempio hanno una regolarità nel tempo del racconto che fluisce a ondate e ritorna abbondante su stesso , e plasma i contorni dei singoli episodi, riconoscendosi nella misura stessa della durata di una storia intima e sensibilmente coinvolgente.

Nel gioco allora rientrano tutte le possibilità narrative: la tela è una sequenza che trasporta senza remore verso il ritorno.

“La natura ci guarda passare/ un po’ grigi un po’ perversi/ poca essenza in sua presenza/ pochi mutamenti divini nei nostri occhi/ pronti allo sfratto/ per non aver pagato il pedaggio/ né alla vita né al macello.” (pag.97) Versi contratti in una sensazione di difficoltà esistenziale, che conduce l’autrice passo dopo passo attraverso il continuo frugare al di sopra e al di fuori della vita quotidiana, la quale rappresenta il germe degradabile di ogni riferimento nella conflittualità dell’istinto, nei ritmi  e nelle problematiche del privato.

Scrive ancora Vincenzo Guarracino nella prefazione : “Favola, fiaba, festa, gioco e gioia, molta gioia, una gioia travolgente e commovente, ma vissuta e custodita con elegiaco pudore, come un tesoro prezioso da preservare: è entro queste coordinate che viene inscritta e prende corpo la storia, che l’io, rivendicando su di essa  diritti di assoluta proprietà ( non a caso la chiama, infatti, la nostra storia), considera historia nel suo senso più etimologico di panòplia (trofeo di armi antiche) suggestivamente pittoresca , di corteo e sequela di figure di un amoroso convegno interminabile, come lo è istituzionalmente tutto ciò che attiene appunto al sogno, altro termine questo non casualmente ricorrente”.

La connotazione che accompagna gran parte di questo viaggio attraverso le rimembranze o gli accadimenti che segnano passi indelebili della fanciullezza e della gioventù diventano elementi  di riferimento per un discorso interiore, fitto di spunti meditativi  gnomici, di cui interlocutori , anche se congelati nella vita quotidiana, diventano il tempo, dio, l’amore, la morte.

Il realismo si trasforma in un rifacimento della sublimazione del corpo in uno splendore percettibile che si orchestra in timbri di chiara sonorità e religiosità creaturale dell’umile e splendida fedeltà al ripiegarsi del proprio io, e nel farsi autobiografico.

Un viaggio che si svolge esclusivamente nel tempo, alla ricerca affannosa e ardente di un legame che non si vuole sciolto nello scorrere degli eventi, ma si chiede con la solitudine che batte alle tempie, sino alla rappresentazione metaforica come un’ossessione, mentre le figure sembrano scoccare rivelazioni non ancora accostate.

Condizione personale,  vissuta sulla propria pelle nella cronaca di giorni perduti e ritrovati, accantonati e rievocati, nella elegante formula della scoperta concreta e quotidiana di una assenza che si vorrebbe riconfermare fra l’attesa e  la speranza, sino alla esaltazione utopica di questa immagine paterna impastata di idee e di vita, per quel se  stesso cha fa capolino tra il simbolo e l’allegoria.

La dolcezza si stempera in toni morbidi rinvigorita da una coscienza letteraria che fa di Antonietta Dell’Arte una proposta poetica del tutto singolare, per quella musicalità sua propria e personale, ove molta attenzione si lega a istanze e a forme di linguaggio capaci di distillare emozioni con un intensità ed un ricchezza quasi da spartito musicale.

“Pensavo si quietasse la tempesta/ ma dalla tua scomparsa/ sono nati i fiori perenni/ li guarderò con  occhi di bambina/ per i sorrisi innocenti che mi davi/ e un dolce silenzio camminerà/ nelle nostre mani e culleremo radici/ per altre fioriture.” (pag. 126) – “Mi accompagnerai negli ultimi passi/ come nei primi mano nella mano/ balbetterò ancora richieste/ primitive di carezze/ che puntualmente mi darai,” (pag.127)-

Poesie che chiudono il volume come un suggello capace di riconoscere quelle lacerazioni che richiedono una presenza totale e significativa, per la quale l’autrice esprime in modo intimamente corale la solitudine che si è andata creando per un’assenza incantata e disperata insieme. Giorno dopo giorno, forse addirittura ora dopo ora, il mondo poetico apre una breccia giocando sulla flessibilità dei significati e delle parole, rincorrendo la loro spezzettatura per raggiungere quegli angoli nascosti della psiche che sono i soli capaci di suscitare fantasie ed emozioni. Un lento ritorno delle figure, dei luoghi, dei sussulti, sommersi nelle inconsapevoli contraddizioni del vissuto nel bisogno ineludibile di comunicare con sé e con l’altro da sé, insinuandosi sottilmente nell’immaginario proditoriamente provocato.

L’immaginario riesce a realizzare un ritmo che incalza, in alcuni frammenti a conforto del percorso poetico che per Antonietta Dell’Arte è ricchezza di esperienza sentimentale,capace di interrompere la monotonia della stanchezza, insinuando il desiderio di coinvolgere ancora una volta e per sempre la ossessione della sua inquietudine.

Il suo respiro poetico è sempre ampio, anche se le composizioni in effetti appaiono brevi e fulminanti, in una struttura ritmica ad andamento variabile come se fossero sempre più modellate sul linguaggio, che di volta in volta le occasioni suggeriscono lo scorrere di un narrare quegli eventi dell’imperscrutabile processo interiore. Gli attimi, le parole, le voci, i silenzi, frequentano soprattutto l’amore, quell’amore che sussulta nelle sensazioni più vive , disciolte in un tono confidenziale  che fa di questa poesia un approdo alle illusioni, o alle speranze disilluse, in quella inquieta inquietudine che la contraddistingue. E’ la memoria ancora una volta che collega, e insieme scandisce, istanti diversi dell’esistenza, sia quella trascorsa sia quella a venire. Il tutto attraversato da un sottile filo di tenerezza, che costituisce un reticolo sotteso di intima e dolce malinconia, di sconosciute dolcezze seduttrici, o di velata malinconia, per quella tensione vitale che è essa stessa vera e propria poesia.

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