Sulla poesia di Antonio Porta
EB di Terzet
Agitazione linguistica senza svelamento della scomposizione avvenuta, correre il discorso della ricomposizione, invaderlo nella mediazione primale dell’ossimoro che lascia residuo di citazionismo formale, sottile e sofisticato, utilizzato nell’intendere l’odov che è domanda di luce.
Mascherarsi nell’attenta disattenzione dell’uso parodistico per costituire un palinsesto omerico traverso ulteriore mediazione da aiku, lirici greci, tardo egiziano Ungaretti e D’annunzio non lasciati soli dal pota che viene organizzando la poetica della persona, senza cessioni e cedimento a contraddizioni di senso.
Poesia del senso contenuto. Se no, altro sarebbe.
dalla cattedrale i filtri del vetro
stavano nell’aspetto che sei.
Prendimi tutto il tempo mio
lo spazio mio disse la Voce dal coro
trasparente sino all’altra parte
velata della luce dello spigolo nugolo.
Prendimi prima che altri mi rapiscano
mi lacerino disse la Voce raschiante
prima che mi lasci tutto agli altri
ai divoratori della carne, quelli che leccano
lo spirito, istrici.
Il diario delle invasioni si aggira, rigira e s’impernia su una dichiarazione di tale poetica, quasi gettata, nascosta, senza data come sempre è poesia, invenzione di tempospazio. Palinsesto a specchi che elude l’esplicitazione totale per il giuoco della temporalità dato che le cose si offrono al poeta che registra, accogliendo benefico, operando e scorge - fa scorgere – l’insorgere del timore, di una paura di dire, dell’entrare definitivamente nella luce, di bucare la coda baleniera, di circimconoscere le isole del mare, di tentare gli arcipelagi della Bibbia di Melville di Conrad di Musil, di patronimici della cultura europea.
Il poeta tenta una difesa per non rimanere senza lingua nella pagina successiva, per poter continuare l’oralità scritta ancora una volta: la biologicità dell’io dove i sintagmi dell’ontico e del teologico sono frenati, s’infrangono nella estraneazione della situazione in atto che trasporta in altro margine: religiosità. Cammino: viaggiare antico della poesia tra simbolo e metonimia sottesi a trascurare l’ordito formale, nuova mascheratura dell’io che appare e scompare pieno di gioia e vuoto di spiegazioni. Questi i poli consapevoli della contraddizione mantenuta che ricaccia al problema del tempo nostro: il dopoNietzsche (non il post-moderno).
Aspetto con testardaggine e agitazione
sui sassi leonardeschi la posa singolare.
Dalla cattedrale il cuore antico dice
il suo legame all’angolo che con lo spigolo
non risolve la questione numerale. Solamente
quell’immobile pulsazione verde che scopriamo
blubizantino transita la tempesta tra gli asfodeli
nello smarrimento del vento sopito
raccolti i brandelli oVoce
nella mano quello che ti dobbiamo
tempo d’eterno, si ricompone.
Il poeta allaga i campi degli astri, degli dei , della natura e il volo scoppia dopo cinquecentoquarantasette brevi metri, affascina e impaura, assicura sul misterico fare non più dissolto in schegge e frattaglie, ma risolto in frammenti compiuti dove il dire vuole essere detto, dato. Sino all’opera dove sentimento senso dramma e tragedia del tempo sono in quell’equilibrio attimale che muta i segnali in segni. E il mondo umano rinasce e apre la bocca congelata a tracce luminose in pochi minuti di luce.