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Antonio Spagnuolo, Come un solfeggio, Ed. Kairòs, 2014

Ugo Piscopo

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(Spagnuolo, sulla soglia del mistero dove accennano a intrecciarsi senso e non senso)
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Anche quest'ultima plaquette di poesia di Antonio Spagnuolo, come la precedente (di destinazione pubblica) e come la prima (di destinazione per pochi e selezionati amici), dopo la scomparsa di lei, compagna di tutta una vita, si costituisce sulla cifra dell'interruzione con la parola precedentemente lavorata al cesello entro un laboratorio ricco di attrezzi propri della modernità. Questa volta, ancora, il poeta si mette tra parentesi, tenendo in sospensione sé con tutte le esperienze acquisite, e si sofferma cautamente sulla soglia di un luogo straniato e straniante che dà accesso a uno spazio dove cercano incontri, assaggi di incontri, il senso e il non senso, il palpabile e l'impalpabile. Dove tutto potrebbe essere, ma si sottrae a verifiche definitive e inconfutabili, per svolgersi sul filo del batticuore, di una sillabazione musicale che allude, ma non dice nulla di preciso e di concluso.
Questo linguaggio ambiguo e liminare, suggestivo e retrattile, il poeta lo chiama "solfeggio". E intitola, pertanto, ad esso il librino dello stupore e dell'inappagamento "Come un solfeggio" (Kairòs, Napoli, 2014, pp. 52).
Ma, attenzione, egli non intende confrontarsi, su questo itinerario, col solfeggio in sé e per sé, bensì con una musica che è "come", che è "quasi", che è piuttosto consonante con situazioni di assaggio e di varianza. Con una musica variantistica, dunque, (e neoclassicheggiante, naturalmente), che non si regola come il postino di un tempo che bussava, come si dice, sempre due volte, ma che già ci fa una grazia, se riusciamo a coglierla nel suo avvicinarsi e allontanarsi sulla punta dei piedi.
Perciò, il poeta, non trova altri punti di appoggio che l'affidarsi a quanto gli è concesso, sia pure in termini di imbarazzo e di dilacerazione. Familiarizza con quest'appercezione di un non senso, che può essere senso forse, e fa di queste contattazioni rapsodiche e irripetibili, sfuggenti, una risorsa di cui appropriarsi e di cui offrire anche agli altri il doloroso incanto. Con una tale opzione, di riappropriazione di sé sul filo dell'accoglienza e dell'auscultazione dell'inquietante double face, perché dall'altra parte, quella nascosta, esso si mostra non nemico, egli viene intravedendo l' "altro" e l' "altrove", ma un po' avventurosamente, per sospetti, per interrogazioni, per pause di meraviglia, di fronte a echi che vengono da lontano e vanno lontano. Che sono quasi come solfeggi. Che si offrono cioè sotto l'aspetto di materiali fonici e grafici allo stato nascente, da decifrare, da aiutare, con esercizi di lettura e/o di esecuzione, a porsi possibilmente in essere, sottraendoli a un destino di spreco e di gratuità. Che si offrono con estremo candore alla germinazione alla vita, proprio come dice Antonio Borgese, un autore ricco di sangue e di intelligenza del primo Novecento, che attende ancora di essere rivisitato "sine ira et studio",  riguardo a una sua raccolta di poesie giovanili: "Raccolsi in un volumetto alcune liriche, che erano tutte di esperienza personale, e già con alcuni solfeggi di versificazione, libera, come usava dire". E, in queste insorgenze per solfeggi, piene di trepidazione di fronte a una condizione che verifica come certezza principe il contatto con ciò che mette in scacco la ragione, Antonio Spagnuolo ci comunica la sua partecipazione genuina a un comune destino di esposizioni al provvisorio, alla fragilità, allo schianto.

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