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Marco Amendolara, ancora con noi poeta sul serio

Ugo Piscopo

 

Prima di impiccarsi in una gelida notte di dicembre 1925 nella sua stanza di Leningrado, Esenin scrive a un amico, intingendo il pennino nel suo sangue, un “arrivederci”, tagliente come una stilettata, dichiaratamente in anticonformistica controtendenza, senza concedere spazio a gesti e a consuetudini di saluto. Sono due quartine, le ultime due della sua vita, la seconda e terminale delle quali recita, nella traduzione di Curzia Ferrari:

 

“Arrivederci, senza strette di mano, né parole.

E non piangere, non fare il viso triste,

In questo mondo non è cosa nuova morire,

ma neppure vivere è più nuovo”.

 

E’ una uscita dalla vita, chiudendo freddamente quasi da automa la porta alle spalle, come da sequenza prevista da copione. Là fuori, la luce continua a calare a strapiombo dal cielo sulla scena della vita tutta un ingorgo di sortilegi e deliri. Ed è contro questo destino, questa condizione assurda che Esenin, nel corso della sua movimentatissima e singolare esistenza, scaglia teppisticamente la sua poesia e in ultimo la sua decisione di strappo irricucibile.

Anche Marco Amendolara sigilla la sua avventura con un’esplicita analoga testimonianza di antitesi all’umano destino. A Salerno e altrove è il 16 luglio 2008, e lui fra tre mesi avrebbe compiuto quarant’anni. Non gli basta essere un intellettuale acuto e attrezzato, un traduttore fecondo dal latino e dalle lingue moderne, un teorico e un critico letterario apprezzato dagli addetti ai lavori. Non gli basta neppure la poesia, che, secondo un vulgato luogo comune dovrebbe essere di lenimento e di conforto alla pena di vivere.

Ma non è il 16 luglio 2008 che lo porta alla tragica conclusione: col nulla, egli aveva avviato sin dall’inizio un dialogo, che si era venuto progressivamente intensificando nel corso di tutta la sua produzione letteraria. Fino alle sempre più marcate dichiarazioni di nichilismo rilasciate negli ultimi tempi. Ma amici e conoscenti, in quanto tali, eufemisticamente distinguevano tra il maneggio di topiche figurali e di simboli da una parte e la realtà dall’altra, che ordinariamente impasta il tragico col comico, col grottesco e col banale. Non avrebbero mai potuto ammettere che Marco pensasse sul serio quello che pensava e diceva.

Ma Marco diceva sul serio, come faceva il poeta sul serio. D’altronde, negli ultimi due tre decenni del secolo scorso, ci sono state svolte decisive in Italia e non solo da noi, in politica come in economia, nel gusto come nella moda. In arte, in architettura, in musica, si diffonde il postmoderno nelle sue varie declinazioni, si riscopre la figura del padre, si fa poesia innamorata e dintorni e sembra quasi che si vogliano di nuovo avvicinare le punte di parola e verità (neoromanticamente). Intanto, un postulato appare indiscutibile: la necessità di tagliare i rapporti con la mimesi artistico-letteraria e con le scelte di vita dell’immediato dopoguerra e del decollo industriale. Ad esempio, con la cifra dell’engagement (per dirla con Sartre) e con la cinica ludicità linguistica di quei medesimi anni, - basti pensare a quanto si teorizza in materia nell’ambito della neoavanguardia -. Anche per effetto dell’improcrastinabilità della fine del millennio, ci si comincia, adesso, a ripiegare su sé stessi, sul presente, senza gli alibi dei rinvii al futuro e delle attese millenaristiche. Adesso diventa prioritario scommettere sugli investimenti totali, sulle inclusioni anche delle antitesi, dei paradossi, delle anfibologie, dei sentieri interrotti, per usare un’espressione di Heidegger. Su un dirsi e un rappresentarsi in totale integralità, anche nel groppo delle ineludibili ambiguità.

Entro questo clima, si delinea e matura la vicenda intellettuale e poetica di Marco Amendolara nella sua Salerno, che è assunta, se non a ombelico del mondo, certamente a piattaforma in galleggiamento sul mare di una contemporaneità liquida, sfuggente, ricca di risorse e altrettanto di veleni. Come poeta, egli si dà il compito di essere sé stesso, di viversi allo spasimo e sul filo del rasoio, consegnandosi a una parola implementata di oggettività e testata sul terreno della perentorietà e dell’oltranza.

Alla sua tragica scomparsa, aveva lasciato un quaderno di poesie inedite, che la madre ha fatto circolare presso amici ed estimatori di Marco. Adesso, finalmente, questa silloge è venuta alla luce in una veste di grande decoro e in una collana dove sono presenti ottimi autori: Il corpo e l’orto. Poesie 2005-2008, postfazione di Renzo Paris, La vita felice, Milano 2014, pp. 56, € 10,00.

La sua voce è sempre quella, trepidante e vibratile di stupore di fronte al susseguirsi dei giorni, al diramarsi della vita in molteplici direzioni e manifestazioni, inafferrabili e tuttavia intrise del caldo, tenero, avvolgente fiato del mondo. Come in questa composizione, che occupa non solo materialmente, ma anche idealmente il centro della plaquette, come un asse intorno a cui girano le altre sequenze, e che apre a ventaglio e a riscontro il flusso delle forze vitali nell’appercezione oscura, ma inequivoca del corpo e nella rimemorazione dell’appercezione stessa:

 

“ Era tutto orto, lo spazio

che ti abitava:

le radici, le piante, le acque

che sgorgavano piano e formavano

piccole pozze; i vari volatili;

gli alberi, più lontano: nespoli, fichi,

e, oltre, la vigna.

Una lieve follia entrava in te,

corpo di molte presenze.” (p. 23)

 

Non solo questa, ma quasi anche tutte le altre poesie del quaderno corrono sul filo di un discreto, liminare, ma decisivo dialogo con sé stesso, cioè con l’altro che osserva e completa nel silenzio le nostre proposizioni, meditate o estemporanee che siano. Tutto il volumetto, in sostanza, si dispone su un registro dialogico e poematico, per singhiozzi e frammenti, che si proiettano puntualmente in avanti e altrettanto puntualmente ritornano su suggestioni, rimembranze, lacerti di intercettazioni precedenti. In queste interrogazioni della Differenza e simultaneamente del Medesimo, si insinuano, per intermittenze e interstizi, suggerimenti affabulatori che si affidano alle varianti, per spostare ogni volta più in là l’accertamento o il riconoscimento del vero, per marcare lo spostamento verso l’altrove della linea d’ombra entro cui si consuma la vicenda di ognuno.

Così, la corporeità, su cui scommette il poeta, come sulla possibilità per eccellenza per contattare il reale, con tutte le sue concrezioni, residuali nel “corpo” e nell’”orto”, le due figure a cui richiama il titolo della raccolta e a cui si richiamano, come a pezze di appoggio, i vari frammenti del discorso poetico, finisce per dimostrarsi nel concreto nient’altro che allusione, ingannevole fantasma. Perché, sotto la sua veste, c’è il nulla. Perché nel teatro del nulla, ci possono essere e ci sono ritorni infiniti, ma possono esserci e ci sono interruzioni definitive e perdite irrecuperabili, proprio come è detto nella chiusa di una delle poesie più belle, che è piaciuta anche al postfatore del libro, Renzo Paris:

 

“Vertumno ci insegue,

ma dalla nascita possiede

i nostri corpi

e la nostra logica.

E’ dentro di noi, il dio

delle vegetazioni e

dei cambiamenti: il sorriso

diventa ghigno, la ruga

un graffio nell’osso,

il corpo niente,

se poi non si riaccende”. (p. 15).

 

Ed è su questa cesura totale dei ritorni, che il poeta si affaccia infine il 16 luglio 2008 come dall’alto di un burrone con una passione totale.

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